lavoro sui sogni

L’uso della concentrazione nel lavoro sui sogni

– Mercurio Albino Macaluso

Secondo gli autori di Teoria e pratica della terapia della Gestalt, il sogno è un atto creativo del sé, in cui le situazioni incompiute che tendono alla chiusura si manifestano attraverso il linguaggio pre-verbale delle immagini. Il sogno costituisce una risorsa essenziale per la terapia, in quanto via d’accesso privilegiata alla comprensione delle modalità di contatto della persona e strumento potente per favorire una migliore integrazione dell’esperienza. Oltre ai classici metodi elaborati da Frederick Perls e da Isadore From, vi è un’ulteriore modalità gestaltica di lavoro sui sogni, basata sulla tecnica della concentrazione, che troviamo menzionata nei testi fondanti della psicoterapia della Gestalt. L’articolo propone una rivalutazione di tale modalità, stranamente caduta nell’oblio.

Per la psicoterapia della Gestalt, come per la maggior parte degli approcci psicoterapeutici, il sogno racchiude un notevole potenziale di trasformazione personale e il lavoro fatto a partire dal materiale onirico può essere uno strumento terapeutico potente. L’approccio gestaltico fa ricorso direttamente all’esperienza, invece di mirare all’interpretazione dei contenuti inconsci della psiche. Il lavoro gestaltico sui sogni, pertanto, tende a utilizzare il sogno stesso come mezzo per fare un’esperienza modificatrice. In tal modo il sogno diventa un catalizzatore del processo terapeutico, che ha come fine il funzionamento integrato della personalità.

I metodi gestaltici classici di lavoro sui sogni sono fondamentalmente quello di Frederick Perls e quello di Isadore From. Secondo Perls (1968), ogni elemento del sogno è una proiezione di parti scisse del sognatore. Compito del terapeuta, è favorire la reintegrazione delle parti proiettate del sé del paziente, facendo identificare quest’ultimo con i vari elementi del sogno. In aggiunta al metodo di Perls, From (Rosenfeld, 1978) propose di considerare il sogno come una forma di retroflessione, cioè un ripetere a se stesso qualcosa che il paziente ha evitato di esprimere nell’incontro con il terapeuta. Il ricordare e il raccontare il sogno in terapia, indicano il tentativo di risolvere questa retroflessione. Nella prospettiva di From il sogno, dunque, è visto in chiave relazionale e diventa uno strumento importante per portare alla luce i disturbi del confine di contatto nella relazione tra paziente e terapeuta.

In questo breve lavoro, mi propongo di dimostrare che, oltre a queste modalità tradizionali, vi è un’ulteriore modalità gestaltica di lavoro sui sogni, indicata nei due testi fondanti della psicoterapia della Gestalt, ma poi stranamente caduta nell’oblio. In Ego, Hunger and Aggression (Perls, 1942), è descritta, in maniera succinta, ma chiara, una modalità di lavoro sui sogni che utilizza la tecnica della concentrazione. E anche in Teoria e pratica della terapia della Gestalt (Perls et al., 1951), ritroviamo un cenno fugace, ma significativo, alla possibilità di utilizzare la concentrazione nel lavoro sui sogni.

Dopo un primo periodo, tra gli anni Quaranta e Cinquanta, in cui Perls e la moglie Laura nei gruppi da loro condotti a New York lavorarono sui sogni attraverso la concentrazione, come risulta dalla testimonianza di Richard Kitzler, che riporto più avanti, nella pratica clinica gestaltica questa modalità di approccio al materiale onirico venne accantonata e finì per essere dimenticata. (…)

L’articolo affronta i seguenti temi:

1. Il sogno e il lavoro sui sogni in Teoria e pratica della terapia della Gestalt

2. Una modalità di lavoro sui sogni attraverso la concentrazione

(…)

Articolo tratto da Quaderni di Gestalt, volume XXIV,  2011 – 1, Concentrazione, emergenza e trauma
Rivista semestrale di psicoterapia della Gestalt, edita da FrancoAngeli, pag. 13.

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seduta dal vivo

L’arte del prendersi cura: dialogo su una seduta

– Margherita Spagnuolo Lobb, Adriano Schimmenti e Pietro Andrea Cavaleri. A cura di Teresa Borino

L’articolo riporta la trascrizione di una seduta dal vivo condotta nel 2010 da Margherita Spagnuolo Lobb durante un seminario presso l’Università Kore di Enna. La seduta è incentrata sul sostegno della consapevolezza, all’interno dell’esperienza co-costruita tra terapeuta e paziente. Parole e corporeità si intrecciano al confine di contatto, in una danza relazionale in cui il qui-ed-ora dell’incontro diviene bussola del terapeuta, per sostenere il now-for-next, l’intenzionalità di contatto della paziente. A seguire vengono riportati i commenti del Prof. A. Schimmmenti e del dott. P.A. Cavaleri, che hanno assistito alla seduta. Il risultato è un interessante dialogo e uno stimolante confronto tra due vertici osservativi del processo terapeutico: la psicoanalisi e la psicoterapia della Gestalt.

«E allora, non ascoltate le parole,
ma soltanto quello che vi dice la voce,
quel che vi dicono i movimenti,
quel che vi dice l’atteggiamento, quel che vi dice l’immagine. (…)
Se abbiamo occhi e orecchie, il mondo è aperto»
Perls (1980)

Le parole di Fritz Perls introducono alla prospettiva estetico- fenomenologica che ha animato la seduta dal vivo condotta da Margherita Spagnuolo Lobb in occasione di un seminario didattico presso l’Università Kore di Enna. L’intervento clinico poggia sul ground di una prospettiva olistica ed estetica dell’esperienza in cui ogni passaggio, parola e vissuto, anche il luogo più intimo delle percezioni e sensazioni corporee, sono considerati un fenomeno di campo. Le parole che sostengono e accompagnano l’esperienza affondano le loro radici nei vissuti senso-motori che originano al confine di contatto (cfr. Perls, Hefferline, Goodman, 1997; cfr. Borino, 2013). Ed è proprio ciò che avviene in questo confine ad essere disponibile alla nostra osservazione e all’intervento terapeutico.

Il farsi del contatto che anima la seduta è un’esperienza intercorporea (cfr. Merleau-Ponty, 1979; 1996) di movimenti intenzionali in cui la fisiologia e la corporeità in parte sono già date, e in parte si creano e si modificano in un continuum processuale nel campo fenomenologico “dato” (cfr. Borino, 2013). Il lettore viene coinvolto in un processo di progressivo sostegno alla consapevolezza del corpo-in-relazione, al movimento intenzionale della paziente che sottende il desiderio di raggiungere ed essere raggiunta, il processo della co-creazione del sé al confine di contatto. Quello che accade nel qui ed ora del confine di contatto avviene e si rivela a livello di respirazione, postura, tensione muscolare, cuore che batte, occhi che guardano e orecchie che sentono (cfr. Borino, 2013).

Per l’intera seduta Spagnuolo Lobb lavora tenendo costantemente presente il doppio binario del «livello diacronico dell’esperienza che costituisce lo sfondo dell’esperienza della paziente, e il livello sincronico, costituito dalla figura del disagio attuale e dell’intenzionalità di contatto che cerca di portare a compimento» (Spagnuolo Lobb, 2011, p. 98). Se l’attenzione della terapeuta è costantemente rivolta al here-and-now della relazione, la sua tensione è centrata sul now-for-next. All’interno di un’ottica di campo e di una prospettiva antropologica positiva, in cui l’adattamento creativo a situazioni difficili è la lente per guardare al malessere ma anche alle risorse della paziente, la lettura transferale prospettata dal prof. Schimmenti diventa per noi gestaltisti l’attualizzazione di competenze relazionali co-create nell’incontro.

Il modello estetico e processuale di Spagnuolo Lobb rende l’intervento psicoterapico fiducioso nell’autoregolazione della relazione, in ciò che già funziona, nella tensione verso. Per la psicoterapia della Gestalt, infatti, è proprio l’incontro tra il terapeuta ed il paziente che genera la possibilità di crescita e cambiamento attraverso la ristrutturazione percettiva dell’esperienza e la novità relazionale co-creata nel qui-ed-ora del contatto. Scopo della “cura” non è la comprensione razionale bensì qualcosa che ha a che fare con aspetti processuali ed estetici: il recupero della spontaneità nel contattare l’ambiente.

La seduta: Margherita Spagnuolo Lobb conduce la seduta, Adriano Schimmenti e Pietro A. Cavaleri osservano per poi fare il commento.

T.: Come ti chiami? Pz.: Paola.
T.: Vuoi che inizi io? Pz.: Sì.

T.: Puoi sederti più comoda possibile? Ok, prova a respirare un po’ più pienamente…

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Articolo tratto da Quaderni di Gestalt, volume XXVIII, 2015-1, La psicopatologia in psicoterapia della Gestalt
Rivista Semestrale di Psicoterapia della Gestalt, edita da FrancoAngeli, pag 73

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Il trauma dell’abuso e il delicato processo della riparazione

:come ridare voce e corpo al bambino violato

-Rosanna Militello ntervista a Marinella Malacrea (Parte II)
 

Marinella Malacrea, in questa intervista risponde con ampiezza ed accuratezza a precise domande su un tema delicato, complesso e drammatico, che seppur “vecchio come il mondo”, continua a sconcertare, a stimolare e ad affascinare il lavoro di ricerca e clinico, di chi si occupa di bambini violati. Il lavoro sul trauma dell’abuso all’infanzia, oggi in continua evoluzione, richiede la necessità di modelli terapeutici efficaci per poter rielaborare e riparare quei blocchi evolutivi e quelle pesanti cicatrici che hanno arrestato in modo dirompente la normale spontaneità che è insita nel cuore di ogni bambino.

(…)

Rosanna Militello: Nella psicoterapia della Gestalt l’incontro terapeutico viene visto come una co-creazione, una danza in cui il bambino corre il rischio di potersi esprimere mentre il terapeuta si prende il rischio di accompagnarlo in un viaggio verso terre sconosciute, aprendo spazi nuovi di immaginazione (Spagnuolo Lobb, 2007). Potrebbe descriverci le fasi del processo terapeutico che segue nel lavoro clinico con il bambino vittima di Esperienze Sfavorevoli Infantili?

Marinella Malacrea: Come già detto, la psicoterapia nell’abuso all’infanzia è finalizzata in primo luogo ad agire sul sistema di significati del soggetto, cambiando le “lenti” con cui viene letta l’esperienza, diminuendo il cortocircuito tipico dei processi post traumatici e ripristinando la capacità di integrazione, archiviazione e controllo su pensieri, ricordi, comportamenti, stati psicofisici. Fondamentale è l’idea che il trattamento è un processo, che, in modo non lineare, attraversa tuttavia fasi obbligatorie. Imprescindibile diventa la progettazione dell’intervento in ogni sua fase.

Tale progettazione sarà guidata da due considerazioni: la prima attiene alla necessità di governare il processo terapeutico garantendo sicurezza, gradualità, sintonizzazione con la piccola vittima ed evitando per quanto possibile, riattivazioni traumatiche; la seconda discenderà dalla consapevolezza che non ci si può attendere che i modelli operativi post traumatici vengano attaccati spontaneamente dal piccolo paziente. Quindi, spetta a chi cura guidare con mano ferma la rivisitazione dei processi psichici disfunzionali, portando per così dire per mano il bambino.

I presupposti del contratto terapeutico, costituiti da motivazione e stabilizzazione (controllo sufficiente della sofferenza), devono trovare un equilibrio accettabile. Il trattamento è, infatti, a rischio di “implosione” se c’è insufficiente spinta al cambiamento o al contrario di “esplosione” se pesa una eccessiva labilità e criticità personale. Si può affermare che l’attenzione a queste premesse costituisce il focus trasversale all’intero processo terapeutico. Va notata ancora la precocità con cui nel trattamento viene affrontata la necessità di “guardare da vicino” l’esperienza traumatica più grave, recuperando progressivamente, a cerchi concentrici, premesse e conseguenze, nonché esperienze traumatiche secondarie.

L’obiettivo trasversale della cura, che affonda le sue radici in un humus empatico, è collaborare attivamente a produrre “finestre di plasticità”, di cui ho parlato in precedenza. Lavorando con il bambino appare importante accordarsi sul fatto che lui stesso che è il vero protagonista, affronterà la sua sofferenza in un lavoro di “squadra” con il terapeuta.

La metafora della “squadra” si rivela densa di valore e immediatamente esplicativa. Una squadra si fonda su un libero contratto, è formata per mettere insieme le forze per vincere, è sintonizzata sul raggiungimento di un comune obiettivo, ognuno deve fare la sua parte, nella squadra non ci sono segreti. “Essere in squadra” consente fin dal primo incontro di parlarsi chiaro, di esplicitare le informazioni pregresse comunque raccolte e che a volte neppure il bambino conosce nella sua interezza, di definire gli obiettivi, di fare l’elenco dei problemi da risolvere, di chiarire i metodi che verranno adottati e molto altro: in una parola, consente di responsabilizzare il bambino nel suo percorso terapeutico. In quest’ottica di cooperazione un passaggio fondamentale è la fase della restituzione al piccolo paziente, che deve contenere, pur nel dettaglio unico e specifico del singolo individuo, alcuni “messaggi forti e chiari”.

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Articolo tratto da Quaderni di Gestalt, volume XXIV,  2011 – 1, Concentrazione, emergenza e trauma
Rivista semestrale di psicoterapia della Gestalt, edita da FrancoAngeli, pag. 13

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La “sindrome del cuore infranto”

-Serena Iacono Isidoro

Non sei una monade isolata, ma una parte unica e insostituibile del cosmo. Non dimenticarlo, sei un elemento essenziale nel groviglio dell’umanità.
Epitteto in Bauman (2008)

L’articolo descrive le implicazioni del postulato dell’isomorfismo e dell’indissolubile unità corpo-mente-ambiente sulla ricerca fenomenologica, in cui la teoria è concatenata all’esperienza, partendo dalla concretezza dell’esperienza corporea. Vengono presentati i risultati preliminari di una ricerca che coinvolge pazienti con cardiomiopatia di tako-tsubo (CT), una sindrome cardiaca acuta indotta dallo stress, applicando una metodologia in cui i meccanismi coinvolti nella patologia, gli elementi qualitativo-fenomenologici e quelli quan- titativi (test di Rorschach), risultano complementari.

(…)

Cardiomiopatia di tako-tsubo (o “sindrome del cuore infranto”)

La cardiomiopatia tako-tsubo (CT) rappresenta un’entità nosologica di relativa recente descrizione, a tutt’oggi di difficile diagnosi. È caratterizzata da una transitoria disfunzione del ventricolo sinistro e da alterazioni elettrocardiografiche che possono simulare un infarto miocardico acuto (dolore toracico, dispnea, alterazioni elettrocardiografiche) (Sato et al., 1990). Il suo nome deriva dalle alterazioni cinetiche acute del ventricolo, che assume, nella variante classica, una forma simile ad una trappola per polpi (giapp. tako = polpo, tsubo = cestello) usata un tempo dai pescatori giapponesi (Sharkey et al., 2011). Tale aspetto è dovuto ad una sorta di “stordimento” delle porzioni medie e apicali del cuore con ipercinesia compensatoria dei segmenti basali (Sato et al., 1990). È preceduta da stress cronico e da stress intensi. È stato suggerito che disturbi ansioso-depressivi, il distress e l’età del soggetto possano contribuire alla fisiopatologia della CT (Nguyen et al., 2009). L’incidenza della CT nella popolazione generale è di 1:36.000, colpisce con netta prevalenza il sesso femminile (rapporto di circa 1:3), soprattutto nel periodo post-menopausale; il cuore ritorna alla sua normale attività dopo circa un mese.

In studi recenti (Denollet et al., 2013) è stato evidenziato come la personalità di Tipo D (distressed) costituisca un fattore psicosociale di rischio coronarico. Questa tipologia di personalità è data dalla combinazione di due dimensioni: affettività negativa (ansia, rabbia, ostilità) e inibizione sociale; riflette inoltre la presenza di tratti alessitimici: difficoltà nel riconoscimento degli stati emotivi propri ed altrui e nella modulazione dell’affettività (Castelli et al., 2013). In particolare, Compare et al. (2013) hanno sottolineato il ruolo chiave dell’inibizione sociale nell’aumento della reattività del sistema simpatico e cardiovascolare agli stress emozionali acuti; tale tratto risulta pregnante nei pazienti con CT suggerendo una specifica associazione: la repressione diminuisce l’espressione comportamentale, senza smorzare l’esperienza emotiva, ma incrementando la risposta fisiologica (Ulrich-Lai, Herman, 2009). (…)

Il cuore possiede un sistema nervoso intrinseco che rappresenta il “piccolo cervello del cuore” (Armour, 2007), costituito da neuroni sensoriali (afferenti), di interconnessione (circuito locale) e motori (efferenti), che comunicano con gli altri sotto l’influenza del comando neuronale centrale e delle catecolamine: le proprietà emergenti mostrate dalle sue componenti dipendono in primo luogo dalla trasduzione sensoriale dell’ambiente cardiovascolare.

L’esposizione a situazioni stressanti predispone l’organismo all’attacco o alla fuga per far fronte a situazioni potenzialmente pericolose; tuttavia, se lo stress si prolunga, si determinano effetti che comportano conseguenze negative, oltre che sul piano psicologico, anche sull’attività cardiaca e vascolare. Secondo la psicoterapia della Gestalt, il sovraccarico di stress e di tensione al confine di contatto può rendere necessaria l’attivazione di funzioni di emergenza del sé, funzioni di contatto temporanee utili a fronteggiare un grave pericolo interno e/o esterno, riducendo o esaurendo l’eccesso di tensione (Perls, Hefferline, Goodman, 1997, pp. 70-71). Esse sono di due tipi: sub-attive, che riducono la portata percettiva del pericolo attraverso una funzione prevalentemente “anestetica” dei recettori, e super-attive, che agendo sui propriocettori, incrementano la tensione al confine di contatto, per accelerare un suo più rapido esaurimento (Cascio, 2013, p. 156). L’aspetto del cuore, durante l’acuto della CT (paralisi ed ipercinesia) sembra racchiudere in sé entrambe le funzioni di emergenza: una parte è acinetica (come nel panico paralizzante) mentre l’altra smorza la sua energia attraverso la sovraeccitazione (come nella fuga).

Le qualità resilienti e gli adattamenti creativi che questa sindrome evidenzia sono lo spunto per considerare il campo relazionale in cui questa sindrome si manifesta.

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Articolo tratto da Quaderni di Gestalt, volume XXVIII, 2015-1, La psicopatologia in psicoterapia della Gestalt
Rivista Semestrale di Psicoterapia della Gestalt, edita da FrancoAngeli, pag 89

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Segni e sogni del corpo adolescente

– Anna Fabbrini

Per comprendere l’adolescente nel suo modo di essere-al-mondo, occorre partire dal corpo come campo di esperienza che coincide con la presenza stessa del soggetto. Ciò che accade nel corpo non riguarda solo i fatti fisici come tali, ma il senso che questi hanno per la persona che li esperisce, e il loro permanente rapporto con la costruzione dei significati. Vistosi e rapidi cambiamenti corporei impongono all’adolescente un confronto con dinamiche complesse relative all’autoriconoscimento, al senso di sé e alla propria identità. L’autrice espone i principali disagi e problematiche che possono emergere in questo affascinante percorso di esplorazione, consapevolezza ed integrazione di sensazioni, emozioni, pensieri, relazioni e contatto con se stessi e con gli altri.

Il corpo presenza
La nostra cultura, e la tradizione psicologica in particolare, è ancora profondamente segnata da un assunto di separazione tra mente e corpo che obbliga, ogni volta che affrontiamo il tema della corporeità, ad immaginare che ciò di cui stiamo parlando sia un oggetto (il corpo, appunto), posseduto dal soggetto-persona identificato invece con le attività ed i contenuti della mente e del pensiero. Questa idea, rafforzata dalla cultura medica, porterebbe a privilegiare uno sguardo oggettivo, analitico, anatomico e fisiologico che, nella sua pretesa di scientificità e di standardizzazione, escluderebbe ogni elemento di vissuto soggettivo e di esperienza. Se ci accontentassimo di seguire questa direzione resteremmo al di qua della comprensione possibile dei fenomeni adolescenziali (e non solo di quelli): in questa età più che in altre comprendere ciò che accade nel corpo non riguarda mai i fatti fisici come tali, ma il senso che questi hanno per la persona che li esperisce, il loro permanente rapporto con la costruzione dei significati. L’idea stessa che si possa parlare di un corpo come teatro di fatti altri da quelli della mente, ci allontana dalla possibilità di comprendere l’esperienza che l’adolescente vive col mutamento globale della sua persona, della forma e del senso: mutamento straordinario della presenza. Proprio perché la crisi ruota intorno ad un vissuto di scollamento del mondo interno da quello esterno, intorno alla tensione tra essere e apparire, tra fare e pensare, la comprensione dei fatti e, di conseguenza, l’aiuto all’adolescente non può nascere da un pensiero diviso.
Per comprendere l’adolescente nel suo modo di essere-al-mondo, occorre partire da un corpo non come “cosa” posseduta, ma come campo di esperienza che coincide con la presenza stessa del soggetto. È l’identità di corpo ed esistenza che chiamiamo presenza. L’essere-nel- mondo come presenza, sintetizza dunque l’essere biologico, l’esperienza sensoriale, la capacità di relazione e di contatto, il flusso vissuto di pensieri, sentimenti ed emozioni e la consapevolezza integrata di tutto questo. La presenza così definita, in quanto coincide con l’esperienza, non può che costituirsi come processo, cioè continua costruzione e decostruzione dei dati, succedersi di equilibri e squilibri.
La presenza non è uno stato raggiunto una volta per tutte, ma una dinamica che si radica nella coscienza stessa del corpo e che richiede la capacità di costruire il senso della propria continuità attraverso i cambiamenti. Tale capacità orienta il comportamento e permette di dare risposta ai bisogni che via via emergono.
Questa prospettiva elimina ogni mito di armonia e di benessere raggiungibile una volta per tutte ed implica una capacità di ascolto e di rispetto, sia dei ritmi biologici profondi che si manifestano attraverso le sensazioni, sia dei dati esterni dell’ambiente.
La presenza è segnata dall’oscillazione e dall’andamento ciclico dei diversi stati: alternanza di contatto e ritiro, di apertura e chiusura, di parola e di silenzio. Il malessere ed il disagio nascono quando questo processo viene bloccato, quando viene interrotto il contatto con i messaggi dell’interno e/o dell’esterno. L’incapacità a procedere, a decidere, a scegliere, manifesta il blocco: i sintomi ne sono l’espressione.
Ciò che di solito viene definito disagio evolutivo corrisponde in realtà alla difficoltà soggettiva di accettare il fluire del processo, per l’enorme intensità dei mutamenti interni e dei cambiamenti qualitativi nelle funzioni di contatto, nella definizione e consapevolezza di sé e del mondo esterno. La vera novità degli eventi adolescenziali che riguardano il corpo non è data soltanto dalla particolare intensità e velocità dei mutamenti, come di solito si tende a sottolineare, ma dal fatto già richiamato che l’adolescente è per la prima volta spettatore consapevole del mutamento che lo riguarda ed è dunque impegnato in un processo di controllo, contenimento, attribuzione di senso a ciò che gli accade. Contemporaneamente impara ad utilizzare le nuove risorse che si rendono disponibili.
Resta vero tuttavia che questi cambiamenti, vistosamente percepibili all’esterno, interessano anche alcuni spettatori privilegiati (genitori, fratelli, altri adulti significativi). Anche questi ultimi sono coinvolti emotivamente nell’operazione di accogliere il cambiamento, di attribuirvi senso, mantenendo la possibilità di riconoscere l’adolescente e se stessi nella trasformazione.
Va perciò compresa a fondo la tensione che si viene a creare nel campo relazionale e sociale, proprio a partire dalle modificazioni del corpo e in particolare della sessualità. Questa tensione è data dal fatto che adulto e ragazzo stanno insieme rinegoziando un senso comune da attribuire alle loro rispettive presenze ed alla relazione che li lega. La salvaguardia della diversità, la differenza e la specificità dei ruoli, l’indipendenza e la libertà personale di autodefinirsi, coabitano con la necessità di mantenere il legame affettivo che sostiene l’autoriconoscimento e il senso di permanenza e di continuità.
Articolo tratto da Quaderni di Gestalt, volume XXVI, 2013/1, L’emergere dell’esperienza somatica nel campo fenomenologico
Rivista semestrale di psicoterapia della Gestalt edita da FrancoAngeli, pag. 91
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La femminilità come emergere del sé al confine di contatto

– di Roberta La Rosa

Attraverso il racconto di due casi clinici, l’articolo presenta il lavoro terapeutico con le sofferenze in cui è impossibile avere un rapporto sessuale completo. Partendo dal principio che la sessualità è la trama di fondo del nostro desiderio di contattare l’altro, si è voluto evidenziare come, seguendo l’intenzionalità delle pazienti, la co-creazione tra terapeuta e paziente sia il luogo in cui è possibile sperimentare nuovi schemi relazionali. L’approccio gestaltico ha orientato il lavoro terapeutico con queste sofferenze focalizzando alcuni punti chiave come il radicamento nel corpo, i temi dell’energia e dei confini e il sostegno alla femminilità.

L’idea di scrivere sul tema della sessualità femminile è nata dalla psicoterapia di due donne arrivate nel mio studio con lo stesso sintomo: l’assenza di rapporti sessuali completi con il loro partner. La formazione in psicoterapia della Gestalt mi orienta a guardare la sessualità come desiderio di contattare l’altro, che si dispiega già a partire dal campo relazionale primario. È con questo sfondo che descriverò in breve la storia delle due donne, i temi e alcuni momenti salienti dell’intervento terapeutico.

Mara: 37 anni, primogenita di tre figli, è impiegata presso un’azienda. L’atmosfera nella famiglia d’origine è descritta come calda ma carica di tensione: racconta di conflitti con il padre, con la madre il rapporto è più sereno ma Mara si sente caricata delle sue ansie e guardata con gli occhi di chi vuole incoraggiarla senza la reale convinzione che lei possa farcela. La madre media i conflitti con il padre, chiedendole di essere comprensiva con lui. Ha un buon rapporto con il fratello, nato quando lei era adolescente e verso il quale si è sentita protettiva. Il rapporto con la sorella è stato caratterizzato dal confronto: per i genitori è quella meno critica, accomodante, da prendere ad esempio. L’energia di Mara è vissuta dai familiari come negativa perché porta le discussioni fino in fondo e vuole avere sempre ragione. Si sente la figlia non riuscita. È cattolica praticante e ha creduto nel valore della verginità, scegliendo di rinunciare a rapporti prematrimoniali. Si è sposata quindici anni fa, dopo un lungo fidanzamento, durante il quale lei e il compagno avevano cominciato ad avere un’intimità; Mara si sentiva coinvolta ed eccitata, e allo stesso tempo spaventata per quelle forti sensazioni in contrasto con i suoi valori religiosi.

Arriva in terapia perché, nonostante il desiderio, ha paura della penetrazione. Si squalifica per questo disagio stupido e incomprensibile ma, al contempo, drammaticamente incomunicabile. Nelle prime settimane di terapia il motivo della sua richiesta di aiuto, subito verbalizzato, rimane sullo sfondo. Solo dopo qualche mese, la questione della sessualità diventa la figura attorno cui ruota la sua sofferenza. Racconta del suo sentirsi in colpa per non riuscire ad avere rapporti con il marito, nonostante lui sia molto comprensivo: questo se da un lato la protegge dall’affrontare più seriamente il problema, dall’altro la fa sentire inetta ed incapace. Sul tema cominciano ad emergere anche le sue curiosità, i suoi non detti: “Avrei tante domande da fare alle donne che sento più grandi…vorrei essere rassicurata, vorrei chiedere cosa succede in quei momenti, se sentirò dolore e se riuscirò a sopportarlo…”.

Come scrive Amendt Lyon (2013), la dinamica figura/sfondo e il legame che la sessualità ha con il tema della vergogna permettono talvolta che le questioni sessuali retrocedano sullo sfondo, consentendo che argomenti meno minacciosi stiano in figura. Ciò in senso diacronico ha la funzione di sostenere la relazione terapeutica, e di costruire un ground di fiducia che consente al paziente di lasciarsi andare a confessioni più intime. Dalle sensazioni che provo stando di fronte a lei, ho il senso di un corpo vissuto come “sempre in allerta”, di un corpo sospeso. Mara riporta che in famiglia c’è spesso il senso di un qualcosa da cui ci si deve proteggere: un’improvvisa crisi economica, gli estranei, il mondo fuori casa pericoloso. È come se ciò si traducesse in iper-attenzione e in un allenamento costante ai segnali che arrivano dall’esterno: il nemico potrebbe arrivare, occorre prepararsi, il respiro si fa esile per aumentare la vigilanza e limitare la possibilità di essere distratti. Quando il corpo così desensibilizzato avverte sensazioni eccitanti o emozioni intense, ci si sente disorientati e impauriti, poiché queste non possono essere riconosciute come proprie.

Alcuni pazienti percepiscono l’ambiente come una forza che è pronta ad assalirli, mancando della capacità di sentirsi parte di un più vasto ambiente circostante. Nel percepire un’eccitazione sessuale, ad esempio, la vivono come il nemico che arriva da fuori: il corpo non può riconoscerla come propria, né contenerla. La poca confidenza che Mara ha con il corpo si traduce in curiosità e paura: «Ho una paura terribile delle mie parti intime, mi sembrano così delicate che ho il timore di potermi fare male anche quando mi lavo».

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Articolo tratto da Quaderni di Gestalt, volume XXVI, 2013/1, L’emergere dell’esperienza somatica nel campo fenomenologico
Rivista semestrale di psicoterapia della Gestalt edita da FrancoAngeli, pag. 91

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come ridare voce e corpo al bambino violato

Rosanna Militello intervista Marinella Malacrea (Parte II)

Marinella Malacrea, in questa intervista risponde con ampiezza ed accuratezza a precise domande su un tema delicato, complesso e drammatico, che seppur “vecchio come il mondo”, continua a sconcertare, a stimolare e ad affascinare il lavoro di ricerca e clinico, di chi si occupa di bambini violati. Il lavoro sul trauma sessuale all’infanzia, oggi in continua evoluzione, richiede la necessità di modelli terapeutici efficaci per poter rielaborare e riparare quei blocchi evolutivi e quelle pesanti cicatrici che hanno arrestato in modo dirompente la normale spontaneità che è insita nel cuore di ogni bambino.

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Rosanna Militello: Quanto incide l’ambiente non accudente, non terapeutico durante il trattamento?

Marinella Malacrea: Pur non sottovalutando un’ottica preventiva, è saggio ammettere non solo che la maggior parte delle evenienze ambientali fattuali non è controllabile ed evitabile, ma che comunque parte di esse contengono anche un potenziale positivo. Occorre quindi “cavalcare la tigre”, cercando nelle varie vicende una prospettiva che le renda occasione, sia pur sofferta, di promozione personale.

A tal proposito, i concetti chiave che abbiamo individuato sono due: quello di “riattivatore traumatico” e quello di “finestra di plasticità”, che possono ben essere considerati come due facce della stessa medaglia. Il primo passo è il riconoscimento dei riattivatori traumatici: è noto che i soggetti traumatizzati nell’infanzia acquisiscono una maggiore vulnerabilità al ripetersi di evenienze analoghe a quelle che li hanno danneggiati. Tendono anche a interpretare in modo allarmato circostanze di per sé non minacciose, attraverso la costruzione permanente della convinzione di avere a che fare con un “mondo malevolo”. Tutto ciò che comporta un’alta tonalità emotiva, anche di segno positivo, e un significativo coinvolgimento relazionale può destabilizzare il soggetto dando luogo al ripristino automatico degli schemi di funzionamento post traumatico. Le piccole vittime tendono dunque a reagire con modalità post traumatiche specialmente alle esperienze che comportano intensità e prossimità dei legami, cioè circostanze in cui il soggetto traumatizzato sente aumentare la propria vulnerabilità. Sul piano operativo, quanto sopra impone l’esigenza di concepire la presa in carico come marcata dalla probabilità di ricadute, che vanno riconosciute e che richiedono la ripresa di cure intensive.

Ma si può fare di più in tutte quelle circostanze che potenzialmente re-innescano le reazioni post traumatiche, ma che possono essere considerate evenienze addirittura desiderabili? Pensiamo agli esiti giudiziari che comportano protezione e migliori prospettive future nella vita del bambino; o a nuove relazioni familiari importanti (affidamento, adozione); o a fasi di sviluppo personale fisiologici e cruciali, come la pubertà e il passaggio all’adolescenza; o alle prime prove di coinvolgimento in relazioni affettive e sessuali con pari. Come detto sopra, ogni occasione con queste caratteristiche di pregnanza può dare riattivazione. Ci viene in soccorso a questo punto l’altro concetto chiave, quello di “finestra di plasticità”.Ciò di cui può essere temuta la forza destabilizzante è anche una possibilità unica di riordino mentale. In questi momenti le strutture cerebrali ritrovano in parte la flessibilità perduta. È quindi il momento propizio: la tempestiva messa in campo di un intervento terapeutico mirato, facendo leva proprio sulla momentanea destabilizzazione e sul momentaneo innalzamento della temperatura emotiva, può essere occasione privilegiata per lavorare sulla scelta di diverse abilità di coping, per l’elaborazione di nuovi significati, per il contenimento emotivo, per il progresso nei processi di lutto, in definitiva per il raggiungimento di un assetto di funzionamento più sano.

Rosanna Militello: Secondo la mia esperienza clinica, all’interno della stanza della terapia, il bisogno di raccontare e raccontarsi del bambino violato, di buttare fuori lo sporco, di conoscere e sentire le emozioni, si chiarifica sempre di più. Attraverso l’utilizzo di modalità creative non invadenti e più vicine al linguaggio infantile diventa più facile contattare il dolore e la vergogna. Quando gli si dà la possibilità di creare, il bambino lascia emergere nuove figure, anche se lo sfondo è caratterizzato da quella confusione di cui l’abuso è assoluto portatore. Cosa ne pensa?

Marinella Malacrea: Lo scarico motorio, il non pensiero, la televisione o i videogiochi, il dormire, l’ammalarsi, perfino l’applicarsi in certe prestazioni scolastiche “meccaniche” ma impegnative per la mente, costituiscono strategie utilizzate dai bambini per rinforzare l’impulso e la tendenza a segregare ricordi e vissuti traumatici nell’angolo più inaccessibile della mente. Questo impegno nella “fuga” lascia dietro di sé una scia preoccupante di sintomi che si manifestano con disturbi del sonno, del comportamento alimentare, disturbi psicosomatici, del controllo delle funzioni fisiologiche, dell’umore, dell’apprendimento e della capacità di relazionarsi. Questo sforzo di evitamento del ricordo e dei vissuti traumatici opera da rinforzo alla filosofia di fondo improntata alla solitudine, alla disistima di sé (non posso mostrarmi a nessuno, non sono amabile) e degli altri (nessuno mi potrà capire, non posso fidarmi di nessuno), alla necessità di tenere tutto sotto controllo, al disgusto e alla vergogna, alla previsione negativa sul proprio futuro, alla demotivazione.

L’intervento psicologico con le piccole vittime si configura, sin dal primo approccio, come una vera guerra ai meccanismi di negazione, evitamento e dissociazione. A quel punto bastano a volte poche sedute (specie da quando abbiamo introdotto la tecnica EMDR) per sbloccare e far virare funzionamenti che erano sembrati per mesi, a volte davvero tanti, inamovibili. Come si sa, le favole ci insegnano che le magie finiscono a mezzanotte: quindi abbiamo imparato a non spaventarci quando, raggiunto un livello di possibilità elaborativa ideale, ricompaiono, in apparenza più virulenti che mai, i meccanismi di evitamento che ben avevamo imparato a conoscere. L’esperienza positiva fatta non va perduta: sembrano ripercorrersi i soliti sentieri della mente, ma con capacità sempre maggiori di contenimento e possibilità di elaborazione.

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Articolo tratto da Quaderni di Gestalt, volume XXIV, 2011/1, Concentrazione, emergenza e trauma
Rivista semestrale di Psicoterapia della Gestalt edita da FrancoAngeli, pag. 13.

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L'Intenzionalità

Chi siamo? Cosa vogliamo? Gli psicoterapeuti rispondono..

Caratteristica della coscienza che tende a qualcosa di specifico. Nell’ambito dell’approccio fenomenologico, il termine intenzionalità si riferisce ad uno degli aspetti più rilevanti della coscienza. La coscienza, infatti, esiste solo nel suo “rapportarsi a” qualcosa, nel suo “in-tendere verso” un oggetto, nel suo trascendersi. È nell’atto del “trascendimento”, che si costituisce la soggettività. È nella “trascendenza” che si trova l’elemento sostanziale della coscienza. La nozione di intenzionalità, come emerge dalla fenomenologia di Husserl, implica da una parte l’impossibilità di una “realtà in sé” e dall’altra l’esclusione di una “coscienza in sé” incapace di percepire il mondo in “se stesso”. Sul piano epistemologico, un tale modo di concepire l’intenzionalità costituisce un fondamentale punto di riferimento sia per la psicologia che per la psicopatologia. Se l’uomo si costituisce essenzialmente nel trascendersi, nell’intenzionarsi, nell’entrare in contatto con quanto lo circonda, ciò implica la necessità che la psicopatologia e la psicoterapia debbano rivolgersi all’analisi di questo continuo “trascendersi”, “intenzionarsi”, “entrare in contatto”.

Occorre soprattutto indagare “come”, con quali “forme” e in quali “modi”, l’uomo si intenziona.

È a questo nucleo centrale della ricerca che si rivolgono le psicoterapie ad orientamento fenomenologico o fenomenologico-esistenziale.

La psicoterapia della Gestalt, in particolare, pone al centro dell’intervento di cura il , che in maniera consapevole e attiva elabora significati, produce intenzioni, sussiste nel suo continuo aprirsi al mondo, tanto da costituire con esso una medesima realtà. È in questa relazione col mondo, in questo “in-tendere verso” di esso, che occorre individuare l’origine della sofferenza mentale e al contempo lo spazio della cura.

M. Spagnuolo Lobb e P. A. Cavaleri

Definizione tratta da GestaltPedia, l’enciclopedia della Gestalt!

“Essere-con” nel mondo di oggi.

Dialogo sulla cultura della relazione tra Pietro Andrea Cavaleri e Giancarlo Pintus (Parte I)

I due psicologi dialogano sulla relazione umana nell’attuale contesto sociale e culturale, sviluppando una lettura in chiave fenomenologica dei cambiamenti epocali nelle relazioni di coppia, familiari, nei gruppi e nella polis. Sulla scorta della metafora post-moderna della relazione come di “una zattera senza timone”, i due autori si confrontano sulle opportunità offerte dal superamento del primato della società sull’individuo, ma anche sulle nuove paure e i nuovi quadri psicopatologici correlati a un’individualità sempre più sganciata dallo sfondo del proprio ground di sicurezze. La relazione si configura allora come uno spazio sacro all’interno del quale nasce la mente, evento relazionale e di confine, ed emerge il bisogno di una nuova alfabetizzazione relazionale.

Giancarlo Pintus: Nel tuo ultimo libro, richiami la parafrasi di Zygmunt Bauman (1999; 2002; 2004; 2007; 2008) per parlare della relazione umana, nell’epoca attuale, come di una zattera senza timone “sulla quale nessuno vuole salire e sulla quale ognuno ha paura di navigare”. Le relazioni sembrano in balia di due opposti pericoli: la sottomissione all’altro o il potere sull’altro. Scrivi ancora: “Ai solidi legami di un tempo, che univano al proprio interno una coppia o fra di loro i membri di una famiglia o, più in generale, di una comunità, si sono sostituiti adesso i legami ‘liquidi’ della società globalizzata, dove non sono previsti impegni duraturi e dove ogni cosa non può che ubbidire rigorosamente ai calcoli freddi ed impietosi della convenienza personale. Ma come è stato possibile che i legami umani si siano improvvisamente liquefatti?” (Cavaleri, 2007, 167).

Pietro A. Cavaleri: Nella mia pratica clinica noto che le coppie si separano con estrema facilità. Le coppie, davanti ad una difficoltà, non provano a risolverla bensì la mettono da parte, attivando un iter che porta poi inevitabilmente alla separazione. Questo avviene anche fra amici e in ogni altro contesto relazionale: la gente investe poco nella relazione. Appena si incontrano dei problemi relazionali, immediatamente si interrompe l’esperienza, si cambia canale, una sorta di zapping che investe l’intera costellazione dei nostri rapporti sociali.

Giancarlo Pintus: Sembra un fenomeno particolarmente diffuso nella nostra cultura post-moderna; perché e come è avvenuto che nel mondo occidentale la comunità delle persone si sfaldasse, che la rete delle relazioni attorno a una persona si frammentasse?

Pietro A. Cavaleri: Oggi l’uomo occidentale vive come rischioso il rapportarsi con l’altro, mentre in passato la sofferenza, le congiunture economiche e le guerre mettevano insieme le persone, aumentando il loro senso di aggregazione. In passato lo stato di bisogno creava la necessità di stare insieme e di essere più coesi (Salonia, 2000). Dobbiamo ricorrere a due coordinate fondamentali: una di carattere antropologico-culturale, l’altra di tipo economico (Cavaleri, 2009a).

Dal punto di vista antropologico, dall’umanesimo ad oggi, in occidente, l’uomo ha rivendicato per sé una centralità che prima non aveva mai avuto. L’uomo esiste da circa 36000 anni, ma da sempre la sua individualità è stata sottoposta alle ragioni, ai bisogni e agli interessi della comunità, ma dal ‘500 in poi l’uomo ha dato inizio ad un processo culturale, avviatosi invero già con la cultura greca, per cui l’individuo è diventato l’epicentro della politica, dell’economia, della morale, della religione dando vita all’epoca moderna. Lentamente, grazie al pensiero rivoluzionario di uomini quali Lutero e Kant, per citarne alcuni, e a movimenti come il liberismo e la rivoluzione francese, l’individuo diventa veramente il centro dell’universo e i rapporti di forza tra individuo e comunità si capovolgono completamente. La massa degli individui non è più subordinata alla comunità, ma al contrario gli individui diventano l’epicentro e il criterio di riferimento della vita sociale. Il rapporto con la comunità e le sue ragioni, il senso del bene comune che rimanda alla comunità, vanno sempre più nello sfondo e l’individuo, in modo autoreferenziale, diventa il punto centrale in base al quale valutare scelte, orientamenti e decisioni. Il sentire legittima ogni azione: “sento” di volermi separare da mia moglie? Il fatto che io “senta” concluso un legame, automaticamente mi dà legittimazione ad avviare una separazione, al di là della responsabilità che mi può legare soprattutto ai figli. Non mi chiedo se dare un seguito a ciò che “sento” può poi provocare delle difficoltà, dei disagi o dei traumi irreversibili agli altri, perché il criterio di riferimento per le mie scelte sono io e soltanto io, non esiste alcuna forma di “responsabilità” verso l’altro.

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Articolo tratto da Quaderni di Gestalt, volume XXIII, 2010 /1, Psicoterapia della Gestalt e fenomenologia

Rivista semestrale di Psicoterapia della Gestalt edita da FrancoAngeli, pag. 35

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Come ridare voce e corpo al bambino violato

Rosanna Militello intervista Marinella Malacrea (Parte I)

Marinella Malacrea, in questa intervista risponde con ampiezza ed accuratezza a precise domande su un tema delicato, complesso e drammatico, che seppur “vecchio come il mondo”, continua a sconcertare, a stimolare e ad affascinare il lavoro di ricerca e clinico, di chi si occupa di bambini violati. Il lavoro sul trauma sessuale all’infanzia, oggi in continua evoluzione, richiede la necessità di modelli terapeutici efficaci per poter rielaborare e riparare quei blocchi evolutivi e quelle pesanti cicatrici che hanno arrestato in modo dirompente la normale spontaneità che è insita nel cuore di ogni bambino.

Rosanna Militello: Crescere dentro relazioni sane, nutrienti, chiare dovrebbe essere un processo naturale per ogni bambino; è infatti il vivere, dentro l’oikos, l’esperienza del rispetto, del giusto calore, della non invasione dei confini che dà al piccolo dell’uomo lo sfondo da cui partire per diventare un adulto sicuro, forte, capace di abitare il mondo, di andare verso la polìs con fiducia e fierezza. Un diritto che a nessun bambino dovrebbe essere negato.  L’esperienza maturata in questi anni come psicoterapeuta di bambini ed adolescenti abusati e come Consulente Tecnico presso la Procura mi ha permesso di sperimentare, giorno dopo giorno, quanto devastato e confuso sia il mondo interno delle piccole vittime di abuso. L’attacco ai confini fisici, mentali ed emotivi genera molto spesso un forte indebolimento del sé lasciando l’immagine di un corpo pesto e segnato da pesanti cicatrici. Potrebbe parlarci del trauma legato all’abuso sessuale?

Marinella Malacrea: Nel parlare di trauma preferisco utilizzare la nozione di Esperienze Sfavorevoli Infantili (ESI) introdotta da Felitti (Felitti et al., 2001), per indicare quell’insieme di situazioni vissute nell’infanzia che si possono definire come “incidenti di percorso” negativi rispetto all’ideale percorso evolutivo. Esse comprendono tutte le forme di abuso all’infanzia subito in forma diretta, come abuso sessuale, maltrattamento psicologico, fisico, trascuratezza; e le condizioni subite in forma indiretta che rendono l’ambito familiare impredicibile e malsicuro, come per esempio alcolismo o tossicodipendenza dei genitori, malattie psichiatriche e soprattutto violenza assistita, cioè il coinvolgimento del minore, attivo e/o passivo, in atti di violenza compiuti su figure di riferimento per lui affettivamente significative. Ciò che accomuna tutte le forme di Esperienze Sfavorevoli Infantili, e rende anche così poco differenziabili le loro conseguenze in termini di sintomi e comportamenti, è il fatto che possono produrre distorsione traumatica nei processi di attaccamento, base della futura personalità.

Rosanna Militello: In psicoterapia della Gestalt il funzionamento organismico è regolato dalla dinamica figura/sfondo. In una situazione di normalità, da uno sfondo tranquillo, ricco e articolato emergono di volta in volta figure nitide, che conducono l’organismo a interagire con l’ambiente per assimilare una novità e dunque crescere. Quando questo processo di approccio all’ambiente è disturbato e l’organismo non può portare a termine l’intenzionalità di contatto, l’esperienza si completa con un apprendimento negativo o traumatico, e lo sfondo comincia a diventare “torbido”, disturbato (Spagnuolo Lobb, 2011). Da uno sfondo disturbato emergono figure poco chiare. In altre parole, il bambino abusato, colpito da un trauma che riguarda il tradimento o la confusione di ruoli percepiti nella relazione con figure di attaccamento, non riesce a regolarsi, a lasciare emergere nella relazione con l’altro significativo figure chiare che possano guidare la sua crescita. Il trauma viene inteso, pertanto, come un disturbo nella sequenza spontanea del contattare l’ambiente, come una condizione che rende impossibile lo spontaneo fluire del processo figura/sfondo; un blocco dell’intenzionalità di contatto, una Gestalt inconclusa che, arrestando il normale sviluppo fisiologico ed evolutivo, crea shock e malessere. Come definisce nel suo modello l’esperienza traumatica di un bambino vittima di Esperienze Sfavorevoli Infantili?

Marinella Malacrea: Si tratta di un’esperienza sopraffacente che fa fallire le normali difese e le ordinarie strategie con cui si affrontano gli eventi esterni. Molto cambia se tale esperienza è acuta e puntuale che, pur destabilizzando il soggetto, non inquina il terreno in cui affonda le radici, oppure cronica e pervasiva delle relazioni che dovrebbero essere la sua base sicura. Per usare una metafora fisica, mentre nel trauma acuto il soggetto reagisce all’esperienza traumatica, che immaginiamo come un corpo estraneo entrato attraverso una ferita, lavorando per l’espulsione attraverso l’equivalente di una florida reazione infiammatoria (il Disturbo Post Traumatico da Stress, PTSD), nel trauma o nello stress cronici si produce l’equivalente di un ascesso, dai sintomi più insidiosi, difficile da raggiungere dalle cure e fonte continua di minaccia per la salute. Si parla in questi casi di “trauma interno all’identità”, che apre la strada a un effetto pervasivo e permanente a carico dei processi di regolazione psicologici e biologici del bambino.

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Articolo tratto da Quaderni di Gestalt, volume XXIV, 2011/1, Concentrazione, emergenza e trauma
Rivista semestrale di Psicoterapia della Gestalt edita da FrancoAngeli, pag. 13.

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