L'ambiente nuovo e l'autoregolazione

Avete mai pensato a cosa accade quando entrate in un ambiente nuovo? Gli psicoterapeuti rispondono..

L’autoregolazione è un fondamentale processo psicologico mediante il quale l’organismo si adatta all’ambiente in modo spontaneo e creativo, rendendo l’agire coerente col sentire. L’importanza dell’autoregolazione è ribadita da numerosi autori ed in particolare da Perls. Nella psicoterapia della Gestalt ogni situazione incompiuta e ogni bisogno insoddisfatto non diventano “figura” in seguito ad una decisione predeterminata, ma in modo del tutto spontaneo. Il “contatto” fra organismo e ambiente, l’esperienza del “campo”, ha luogo e si organizza sempre sulla base della “coscienza spontanea” del bisogno predominante. L’intenzionalità dell’organismo, la selezione delle priorità e la progettazione dell’azione congrua sono tutti momenti necessari per portare al suo sblocco la situazione incompiuta. Il fissarsi dell’attenzione o un eccesso di intenzionalità sono, invece, all’origine di una “autoregolazione nevrotica”.

M. Spagnuolo Lobb e P.A. Cavaleri

Tratto da Gestaltpedia, l’enciclopedia della Gestalt!

La follia e l'arte dello psicoterapeuta

Intervista a Umberto Galimberti (Parte I)

Attraverso gli stimoli, di ispirazione gestaltica, di Margherita Spagnuolo Lobb e le risposte, filosoficamente vicine all’approccio junghiano, di Umberto Galimberti, questa intervista affronta temi importanti della clinica contemporanea. Dal rapporto tra il ruolo e il vissuto dello psicoterapeuta, il dialogo si intreccia con riflessioni sulla società post-moderna e sulle problematiche che vengono presentate allo psicoterapeuta nel tempo della “società cementata” (dipendenze, internet, Facebook, crisi economica). Lo psicoterapeuta, come un artista, deve imparare a conoscere sia le proprie possibilità che gli strumenti di lavoro, e deve avere un tipo particolare di fede. È di fondamentale importanza che sia consapevole della propria follìa, avendola attraversata, per riconoscere quella dell’altro, che sia consapevole dei propri dolori per vedere quelli dell’altro, che possa sentire il proprio corpo per sostenere la sensibilità dell’altro. Ed è altrettanto importante che lo psicoterapeuta si “protegga” dalla contaminazione che un’esposizione eccessiva al dolore può provocare.

Margherita Spagnuolo Lobb: Ti ringrazio per avermi concesso questa intervista, che rappresenta un’occasione importante di apprendimento e di confronto per i lettori della rivista Quaderni di Gestalt. Vorrei collegarmi a quanto hai detto ieri, nella tavola rotonda di apertura di questo convegno, riguardo alla psicoterapia come arte. Per la psicoterapia della Gestalt, i concetti di psicoterapia come arte, di estetica della relazione, di psicopatologia come adattamento creativo del paziente ad una situazione difficile, di co-creazione del confine di contatto tra paziente e terapeuta, sono fondamentali e caratterizzanti. Alcuni di questi concetti sono basilari anche per l’approccio junghiano, a te caro.
Hai precisato che la psicoterapia appartiene al mondo dell’arte, piuttosto che a quello della scienza. Oggi la psicoterapia si interroga su nuovi modi di curare il disagio psichico, modi che – al di là di codificazioni prestabilite – devono adeguarsi al sentire sociale incerto. Molti approcci, e la psicoterapia della Gestalt per prima, sottolineano i codici processuali del dialogo terapeutico, la “musica” che il terapeuta e il paziente co-creano, il modo in cui riescono a concordare i loro linguaggi, più che la comprensione dell’inconscio. Sembra che la cura non è più intesa da nessuno come mera analisi dei vissuti del paziente da parte dell’analista neutrale, ma piuttosto come un modo di entrare in contatto: sia il paziente che il terapeuta “si giocano” la propria sofferenza in una relazione “reale”. A questo punto, non essendo più schermati dalla neutralità, gli psicoterapeuti sono sfidati a fare la cosa giusta al momento giusto: a cogliere il momento chiave che consente di innestare nell’esperienza del paziente un germoglio relazionale sano, aderente alla realtà di ciò che si sente, questo potrebbe essere il nuovo must della psicoterapia, l’arte terapeutica, e anche un messaggio per le relazioni sociali in genere. La creatività, che viaggia su canoni di incertezza e di improvvisazione, potrebbe essere il codice relazionale necessario per la società di oggi. Un buon terapeuta, hai detto, deve avere un buon rapporto con la propria follia. Possiamo dire che deve avere anche un buon rapporto con la propria arte? Quali sono le caratteristiche che fanno di un terapeuta un artista e in che modo è possibile apprenderle?

Umberto Galimberti: Quando io dico arte, dico natura, la natura di una persona. Non tutte le nature sono terapeutiche. Alcune nature sono terapeutiche e questo, in linea generale, a prescindere che uno faccia o non faccia il terapeuta. C’è chi ha una vocazione accudente e chi invece proprio non c’è l’ha. Solo quelli che hanno una pre-configurazione accudente possono fare i terapeuti.
All’interno di questa premessa generale, certamente il terapeuta deve avere una relazione con la propria follia. Cosa intendiamo per follia? Per follia intendiamo quella dimensione non razionale che ci abita e che ci mette in contatto con tutto il mondo pre-razionale, che poi è tutto il mondo. Infatti, per fare un esempio, quel vaso di fiori per te significa una cosa e per me ne significa un’altra; quando comunichiamo razionalmente i loro significati privati vengono eliminati e io posso dirti “dammi quel mazzo di fiori”, prescindendo dal significato che questo mazzo di fiori ha per ciascuno di noi.
La follia la riconosciamo nel soliloquio dell’anima. Quando uno parla con se stesso, dice cose e fa associazioni che sicuramente non direbbe in pubblico, quindi è in contatto con la propria follia. Assumo per “follia” tutto ciò che non è rigorosamente comunicabile in maniera univoca, come prevede la ragione. Nel caso patologico, se ho associato quella porta alla porta dell’inferno, è chiaro che ho una titubanza ad entrare. Tutte le cose sono affiancate da queste associazioni private e queste associazioni private sono la follia. Quando Leopardi dice “dimmi che fai tu luna in ciel.”, è un’affermazione folle dal punto di vista razionale, perché si fanno interrogazioni a qualcosa che non risponde.
La follia, dicevamo, è nel soliloquio dell’anima. Nel rapporto duale gli innamorati dicono cose che sono al limite del delirio, come: “Senza di te, mi casca il mondo”. Questo non è vero dal punto di vista razionale. La razionalità, che garantisce l’univocità del linguaggio (per cui, se ti dico “televisione” tu non pensi a un totem), garantisce la prevedibilità dei comportamenti. Se io prendo quel mazzo di fiori tu non temi che te lo butti in testa, ma pensi che lo voglia donare. Questa è la ragione. Ma le cose sono disponibili con una pluralità infinita di significati, che soggiacciono nel momento razionale. Questa probabilità di significati è la follia. Tutto ciò che noi riusciamo a creare lo creiamo attingendo alla follia, perché la ragione è solo un sistema di regole da cui non nasce niente.

Il contatto con la follia deve però avvenire attraverso regole molto rigorose, perché la follia ti può trascinare in scenari da cui potresti non riprenderti più. Senza contatto con la follia, tu non puoi entrare in relazione con l’altro in termini terapeutici; d’altra parte, con un eccessivo contatto con la tua follia fai il matto. Per cui la creatività, che nasce solo dalla follia, vuole regole ferree: i creativi hanno delle discipline terribili, senza le quali sarebbero dei semplici spontaneisti.

Margherita Spagnuolo Lobb: È così che si apprende l’arte della psicoterapia?

Umberto Galimberti: Sì, attraverso il contatto con la follia. Queste cose le dice già Platone nel Simposio.

(…)

Articolo tratto da Quaderni di Gestalt, volume XXIII, 2010 /1, Psicoterapia della Gestalt e fenomenologia
Rivista semestrale di Psicoterapia della Gestalt edita da FrancoAngeli, pag. 11

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Margherita Spagnuolo Lobb

Nuova maturità, l’esperta: “Penalizza i ragazzi; è l’istituzionalizzazione del disimpegno educativo”

Dal 2018 non sarà più richiesta la sufficienza in tutte le materie per essere ammessi all’esame di maturità, ma basterà avere la media del 6. “La scuola sta venendo meno alla sua funzione educativa. I ragazzi non hanno bisogno di ulteriori sconti nella loro presenza” dice la psicoterapeuta Margherita Spagnuolo Lobb

Dal 2018 non sarà più richiesta la sufficienza in tutte le materie per essere ammessi all’esame di maturità, basterà avere la media del 6. Inoltre le prove scritte non saranno più tre ma due e non ci sarà più la tesina agli orali. È quanto prevede lo schema del decreto sugli esami di stato.

“La nuova maturità non solo non aiuta i ragazzi, ma li penalizza: la scuola sta venendo meno alla sua funzione educativa e questo decreto è l’istituzionalizzazione del 6 politico” dice Margherita Spagnuolo Lobb, psicoterapeuta e direttore dell’Istituto di Gestalt HCC Italy.


“Le nuove disposizioni per l’ammissione alla maturità mi sembrano preoccupanti: è come mettere il sigillo, da una parte, all’incompetenza di noi adulti a motivare e sostenere i giovani a studiare; dall’altra allo sbandamento dei giovani che non riescono a concentrarsi sul compito e a sentire la soddisfazione di portarlo a termine” continua l’esperta.

“In una società desensibilizzata come la nostra, i giovani hanno bisogno di ritrovare il senso di sé e la motivazione a esistere come cittadini che danno il loro contributo alla società. Il compito della scuola va sicuramente rinnovato, ma non serve alleggerire lo studio. La situazione dei giovani oggi è drammatica: sempre più ragazzi sono preda di atti impulsivi o di vissuti depressivi. La famiglia deve fare la sua parte, certo, ma la scuola non è meno importante – continua la dottoressa Spagnuolo Lobb -. Da anni il sistema scolastico non riesce a fornire linee pedagogiche chiare, capaci di incontrare i bisogni dei ragazzi. I programmi sono ancora pieni di contenuti che, per quanto importanti per la crescita e potenzialmente interessantissimi, vengono trasmessi con modalità dissociate dal vissuto degli alunni”.

“La nuova maturità non incontra il bisogno degli alunni che è quello di non annoiarsi a scuola, di essere guidati nella scoperta dei grandi temi culturali e nella conoscenza delle principali discipline, di trovare finalmente qualcuno che li valorizzi, che creda in loro e li faccia lavorare a pieno regime coltivando il desiderio di diventare cittadini attivi nella società in cui vivono. Non hanno bisogno di ulteriori sconti nella loro presenza”.
Siracusa, 18 gennaio 2017
Pubblicato da Mascia Quadarella in OraNews.net

Intervista a Margherita Spagnuolo Lobb

La psicoterapia della Gestalt è un metodo psicoterapico che porta nella clinica e nel rapporto persona/società i valori estetici, il rispetto per la creatività e il riconoscimento della bellezza insita nel relazionarsi umano. In Italia, essa è rappresentata per la triplice attività clinica, di ricerca e formazione dall’Istituto di Gestalt HCC, che – fra le altre cose – organizza un Master sul Disturbo dello Spettro Autistico, a partire dal prossimo gennaio. Abbiamo incontrato il Direttore dell’Istituto, la prof.ssa Margherita Spagnuolo Lobb, per chiederle di farcene conoscere storia e attività.  
D. Professoressa, ci può raccontare quale è stata la storia dell’Istituto di Gestalt e il suo sviluppo dal 1979 ad oggi?
R. L’Istituto di Gestalt HCC è stato la prima scuola di formazione in psicoterapia della Gestalt in Italia. È stato sin dall’inizio espressione di un dialogo ermeneutico con i fondatori dell’approccio (negli USA), e ha sviluppato un modello clinico centrato sulla fenomenologia e sull’estetica della relazione, riconosciuto anche in ambito internazionale. Oggi l’Istituto, che innanzitutto vanta il riconoscimento del Ministero dell’Università come scuola di specializzazione in psicoterapia, nelle sue tre sedi di Siracusa, Milano e Palermo, offre modelli clinici innovativi nell’ambito delle relazioni umane, rispondendo alle nuove esigenze della società contemporanea. Ha vari riconoscimenti, sia sul piano istituzionale (è provider ECM, dal 2004 ha la certificazione qualità ed è l’unico istituto italiano accreditato dalla European Association for Gestalt Therapy) che scientifico (svolge ricerche con università e centri di ricerca internazionali). Svolge attività formativa sia in italiano che in inglese o altre lingue (corsi internazionali).
D. Cosa lo differenzia dalle altre scuole di psicoterapia?
R. Prima di rispondere su cosa lo differenzia mi piacerebbe sottolineare che l’Istituto si muove in sinergia con altre scuole di psicoterapia, che rappresentano l’eccellenza del settore e che cercano di dare il meglio ai propri allievi, secondo i criteri della qualità e il confronto tra approcci diversi per crescere insieme. L’essere una comunità di insegnamento/apprendimento è dunque il metodo formativo di base dell’Istituto, sia al suo interno che con altre scuole. Insegnare è un processo che include sempre l’apprendere: una posizione umile e profondamente scientifica, animata da curiosità verso la novità ma anche dall’aderenza a precisi punti epistemologici. Nel nostro metodo di insegnamento (e questo è peculiare) consideriamo la crescita in gruppo come fondamentale, curiamo i processi di gruppo tra gli allievi come microcosmo sperimentale per il loro cambiamento. Insomma tutto ciò che insegniamo viene fenomenologicamente sperimentato prima di essere applicato nella propria professione.
D. L’Istituto di Gestalt si è sempre caratterizzato anche per una sua propria attività editoriale: ce la può descrivere nei contenuti e nelle finalità?
R. Dalla ricerca dell’Istituto nascono le pubblicazioni. La rivista Quaderni di Gestalt, nata nel 1985, pubblicata dalla casa editrice Franco Angeli, ha rappresentato la nostra anima scientifica e dialogica: ospita contributi inediti dei didatti dell’Istituto (spesso tradotti all’estero in altre lingue), dialoghi con esponenti scientifici di rilievo (sono stati ospitati dialoghi con Daniel Stern, Vittorio Gallese, Massimo Ammaniti, Nino Dazzi, Umberto Galimberti e molti altri), ricerche e studi innovativi, brani clinici. Inoltre, la collana di Psicoterapia della Gestalt da me diretta presso la stessa casa editrice offre volumi su temi clinici fondamentali e su sviluppi teorici. Da qualche anno abbiamo iniziato un settore editoriale internazionale in lingua inglese, parallelamente alla formazione internazionale che stiamo sviluppando.
D. Le scuole di psicoterapia svolgono anche una propria attività clinica: ci spiega come si integrano le due anime – formazione e clinica –, rafforzandosi, immaginiamo, l’una con l’atra?
R. Ogni sede riconosciuta della Scuola di Psicoterapia ha un suo Centro Clinico e di Ricerca, in cui prestano la propria opera i didatti dell’istituto, come referenti e supervisori, e giovani psicoterapeuti che sperimentano assieme ai didatti nuovi modelli clinici sottoposti a riflessione e a ricerca. I centri clinici e di ricerca dell’Istituto hanno una finalità sociale, e offrono servizi di psicoterapia e assessment a prezzi accessibili. I centri clinici vengono attivati anche rispetto alle specifiche popolazioni di utenza oggetto di corsi di formazione (come nel caso del Master sui disturbi dello spettro autistico).
D. Svolgete anche attività di ricerca in psicoterapia: ci può spiegare meglio in cosa consiste?
L’attività clinica e di ricerca sono – come diceva lei prima – due anime che si integrano e si rinforzano a vicenda: non si può fare una buona clinica senza ricerca e non si può fare ricerca senza tener conto della clinica. L’istituto di Gestalt HCC Italy fa regolarmente ricerca sui risultati della psicoterapia: tutti i Centri Clinici utilizzano dei questionari validati a livello internazionale per valutare l’esito del lavoro clinico. Inoltre, l’Istituto è impegnato in progetti di ricerca sull’esito dei propri modelli formativi, e anche in ricerche “creative” (ad es., sui processi percettivi del dolore, sul concetto di legalità o sull’interazione caregiver/bambino) collegate alla sperimentazione teorico/clinica della Scuola di Specializzazione e dei propri Master.
D. Una delle vostre novità nel campo della formazione per il 2017, è un Master sull’autismo. Perché questa iniziativa?
R. Come riportato dai dati epidemiologici, il Disturbo dello Spettro Autistico interessa un bambino ogni 68. Ciò significa che tale disturbo rappresenta, oggi, una vera e propria emergenza sociale. Pertanto l’obiettivo primario, come clinici e ricercatori, è quello di offrire una formazione di alto livello a tutti i soggetti protagonisti di una presa in carico terapeutica. In questo senso il Master che abbiamo organizzato risponde alle richieste di approfondimento pervenute da neuropsichiatri infantili che operano nelle realtà territoriali, da psicologi, logopedisti, neuropsicomotricisti e altre figure che ruotano attorno alla persona con autismo.
D. Cosa offre il Master?
R. Il nostro Master traccerà un excursus di approfondimento che fornirà ai partecipanti una mappa orientativa approfondita nell’ambito delle attuali procedure di screening, con particolare attenzione agli strumenti adoperati, sottolineandone punti di forza e di debolezza. Sarà dedicato uno spazio ampio alle procedure di tipo diagnostico, offrendo ai partecipanti una conoscenza dettagliata dei segni del Disturbo dello Spettro Autistico. Saranno discusse le più note strategie di intervento precoce nell’ambito dell’autismo, con riferimento all’importanza del coinvolgimento genitoriale. I partecipanti impareranno ad orientarsi nell’arena dei trattamenti e a ragionare in modo critico sulle strategie d’intervento. Nel corso delle lezioni sarà dedicato uno spazio anche ai temi del Disturbo dello Spettro Autistico ad alto-funzionamento, delle nuove tecnologie, alla ricerca sui fattori eziologici ambientali, alle prospettive epidemiologiche e agli indispensabili punti di vista del pediatra e dei genitori.
D. Qual è il valore aggiunto di questo Master?
R. Abbiamo pensato di offrire ai partecipanti anche una specifica formazione “professionalizzante”. In tal modo gli allievi parteciperanno a un corso ADOS-2 per uso clinico (docente: Antonio Narzisi, ricercatore dell’IRCCS Stella Maris di Calambrone) e a un corso Vineland-II (docente: Giulia Balboni, Università degli Studi di Perugia). Entrambi questi strumenti rientrano nel protocollo di valutazione internazionale usato nel corso del processo diagnostico per il Disturbo dello Spettro Autistico. I partecipanti al master avranno la possibilità, durante alcuni sabati, di esercitarsi in modo pratico all’uso e/o alla conoscenza dell’ADOS-2, attraverso somministrazioni dal vivo o attraverso l’osservazione di video con attribuzione di punteggi e discussione con il docente.
D. Il titolo del corso dichiara che il tema dei Disturbi dello Spettro Autistico sarà affrontato secondo l’approccio gestaltico: cosa intendete?
R. Il Master si basa sul metodo fenomenologico ed estetico della psicoterapia della Gestalt. Si tratta di una prospettiva innovativa nel campo del trattamento del disturbo autistico, che vede la neuro-diversità come una condizione (piuttosto che meramente come uno svantaggio) che ha le proprie risorse e caratteristiche relazionali. Non il tentativo di “normalizzare” il disturbo quindi, ma il riconoscimento di un linguaggio diverso di cui è possibile sostenere le risorse e con cui è possibile dialogare. Una caratteristica interessante del master è inoltre il fatto che le emozioni del professionista (o genitore) che si prende cura del bambino autistico vengono prese in considerazione sia per chiarire il “campo” in cui si lavora, sia per sostenere gli aspetti relazionali tra bambino in cura e operatore della cura.
D. Come sarà formata la “faculty”?
R. Coordinatore del Master, innanzitutto, sarà Antonio Narzisi, che da tempo si occupa dei disturbi dello spettro autistico presso l’IRCCS Stella Maris. Faranno, poi, parte dello staff docente ricercatori universitari esperti nella percezione come funzione gestaltica, olistica e creativa appunto, della relazione, e studiosi che lavorano sul disturbo dello spettro autistico con i metodi più aperti e creativi. I loro nomi sono già pubblicati nel programma sul sito web del corso.

Mi preme infine ricordare che il Master ha ricevuto il patrocinio dell’Istituto Superiore di Sanità e dell’IRCCS Stella Maris, che è considerato uno dei centri europei maggiormente riconosciuti per la diagnosi e la ricerca nell’area del Disturbo dello Spettro Autistico. Anche Hogrefe, come sa, figura fra i patrocinatori, come editore italiano dell’ADOS-2, oltre che di altri test e importanti volumi sull’autismo.

CYBERBULLISMO. INTERVISTA A MARGHERITA SPAGNUOLO LOBB

Comportarsi o essere un cyberbullo nasce dal desiderio di «dominare l’altro», causandogli «stati d’animo umilianti» e «Internet in questo caso è un rischio». Ma questo comportamento è soltanto «un surrogato della stima di sé»: il bullo o la bulla, come le proprie vittime, «ha bisogno di aiuto».
Perché un ragazzo dovrebbe diventare un cyber bullo?
«Il motivo è che il dominio sull’altro, il fatto di provocargli stati d’animo spiacevoli e umilianti e assoggettarlo a sé facendo leva sulla paura, è un surrogato della stima di sé. Il bullo o la bulla costruisce un senso di potere personale sulle spalle della debolezza provocata negli altri».
Però nell’immaginario collettivo, il bullo è spavaldo e sicuro di sé.
«Chi si comporta da bullo, contrariamente alle apparenze, non è una persona forte e sicura di sé ma esprime insicurezza, scarsa autostima e immaturità. E, come le proprie vittime, ha bisogno di aiuto, e non di essere condannato senza appello e isolato. Anche perché, in molti casi, la responsabilità del suo comportamento non è completamente sua, ma in buona misura anche dell’ambiente familiare e sociale».
Quale la «cura» per questi ragazzi?
«Fare sentire l’amore incondizionato di chi si prende cura di loro, cosa a cui non sono per nulla abituati, a cui non credono. Ma è l’unica cosa che può redimerli verso un atteggiamento di rispetto delle fragilità proprie e dell’altro».
L’avere avuto storie di abusi, alle spalle in famiglia, può essere una causa?
«Sappiamo che tutti coloro che abusano di qualcuno hanno imparato a sottomettere l’altro dalla loro storia familiare. Quelli che abusano, compresi i bulli, sono stati umiliati, non sono stati aiutati a crescere orgogliosi delle proprie forze. Sono ragazzi che hanno subito umiliazioni e vessazioni dai genitori o dagli educatori. Non hanno potuto sviluppare un potere personale pieno e rispettoso verso l’altro. Devono rubare la stima di sé ai più deboli, perché l’unico modo che hanno per sentirsi potenti e validi è l’abuso di potere su chi sentono debole. E si sentono legittimati a farlo perché anche loro l’hanno subito».
In un bambino o in un ragazzo ci sono dei comportamenti che devono far suonare un campanello d’allarme per i genitori? Si può riuscire a capire se il figlio sia o stia per diventare un bullo?
«Le caratteristiche di un bullo sono la spavalderia e la negazione della propria fragilità. A volte questo può tradursi in comportamenti impulsivi frequenti, che mirano ad affermare la propria volontà. Ma il comportamento potrebbe essere anche diametralmente opposto: il ragazzo potrebbe anche chiudersi in lunghi silenzi, come se vivesse solo covando risentimento e aspettando la possibilità di esercitare il proprio potere perverso».
L’aggressività può essere un altro segnale?
«Un ragazzo che passa molte ore da solo, o che è sempre davanti al computer, o che fa battutine sulle ragazze o sull’affidabilità degli adulti, o ancora che reagisce ai rimproveri sbattendo le porte e dicendo parolacce, sta celando nel suo cuore qualcosa che va compreso».
In famiglia si tende ancora a dare la colpa alle cattive compagnie?
«Potrebbe apparire come un segnale superato e invece il pericolo è ancora attualissimo. Il genitore deve abbandonare l’atteggiamento di vedere tutto ciò che riguarda il figlio come roseo e innocente. La società malata arriva a lui prima e più che a noi, attraverso internet e attraverso cattive compagnie. I ragazzi hanno bisogno di confrontarsi con i pari, è essenziale per la loro crescita, dunque il genitore deve controllare che compagnie frequenta non per soffocarlo ma per garantirgli il più possibile un ambiente sicuro. Oggi i genitori devono controllare le frequentazioni dei figli e la sfida per loro è proprio il farlo con amore e non con ansia soffocante».
Quali sono gli altri aspetti di un potenziale bullo?
«Cerca disperatamente di essere membro di un gruppo e questo perché si lascia influenzare dal gruppo. E per essere qualcuno in quel gruppo, per dimostrare di non avere paura, imita chi li istiga. Hanno bisogno di appartenenza, e a volte non ci sono appartenenze alternative per loro. La società offre ben poco per gli adolescenti.
Altri segnali possono essere ad esempio il provare imbarazzo davanti a gesti d’affetto dei genitori: non reggono l’emozione di essere amati. Altro aspetto è il non rispettare le regole. Il bullismo spesso è figlio di un’educazione carente sul piano del rispetto. Se i genitori non intervengono quando le regole di casa e della famiglia vengono violate il bambino, a lungo andare, può cominciare a pensare che questo comportamento non solo sia tollerabile e accettabile, ma anche vantaggioso. Gli atteggiamenti di bullismo, poi, spesso si accompagnano a scarso rendimento scolastico, fino ad arrivare all’abbandono degli studi».
La diffusione di Internet ha amplificato il loro raggio d’azione?
«Internet ormai è onnipresente, ma continua a essere un rischio. Perché per il bullo andare in Rete è fonte di piacere: qui cerca di affermare il proprio potere. Oggi non si può dare fiducia alla Rete, e quindi non si ci si può fidare dell’uso che un minore ne fa. Non è questione di non dare fiducia al figlio, ma di garantirgli un ambiente pulito e rispettoso dei suoi sentimenti. Su Internet sono soprattutto le chat e i social network a essere un ambiente pericoloso per i ragazzini».
Cosa deve fare un genitore?
«La prima cosa che un genitore deve fare è stare vicino al figlio e osservare i suoi modi di essere, cercando di capirlo empaticamente. Senza scoraggiarsi, perché è solo dalla relazione coraggiosa con i figli, dal non temere di “disturbarli” o di essere soffocanti, che nasce la possibilità che crescano con buone abitudini».
da: Giornale di Sicilia del 10 febbraio 2016, giornalista Pierpaolo Maddalena

Intervista a Margherita Spagnuolo Lobb. La psicoterapeuta: “I figli di genitori gay? Più socievoli e bene adattati di altri”

La dottoressa Margherita Spagnuolo Lobb, direttore dell’Istituto di Gestalt HCC Italy, spiega perché non solo non ci non ci sono prove certe del fatto che crescere in una famiglia gay possa avere ricadute negative sui processi di sviluppo psichico e relazionale del bambino, ma al contrario ci sono ricerche che provano che i bimbi cresciuti in un contesto di omogenitorialità abbiano maggiori capacità di adattamento alla società e all’ambiente esterno. Ecco che cosa cambia per un bambino che cresce in una famiglia gay e quali problemi potrebbe avere
Su unioni civili e stepchild adoption si stanno scontrando pediatri ed esperti: se alcuni ritengono che crescere con due mamme o due papà possa avere ricadute negative sui processi di sviluppo psichico e relazionale del bambino, altri affermano che non ci sono prove certe che ciò possa avvenire.
Secondo la dottoressa Margherita Spagnuolo Lobb, psicoterapeuta e direttore dell’Istituto di Gestalt Hcc Italy, “non solo non ci sono prove certe del fatto che crescere in una famiglia gay possa avere ricadute negative sui processi di sviluppo psichico e relazionale del bambino, ma al contrario ci sono ricerche che provano che i bimbi cresciuti in un contesto di omogenitorialità sono sanissimi e forse più socievoli e bene adattati di altri. Dobbiamo sempre riportare ciò che osserviamo al contesto in cui viviamo – dice l’esperta -. Una realtà che presa in se stessa ci sembra assurda (un decennio fa non avremmo mai immaginato che una coppia di omosessuali potesse concepire, anche se con pratiche eterologhe, figli propri), considerata nel contesto a cui appartiene può apparirci normale. Oggi è tutta l’antropologia dell’umano che sta cambiando. L’identità di genere, così come molti altri valori una volta sicuri, non è più scontata. I conflitti all’interno delle famiglie sono molto frequenti, così come la violenza, che a volte si genera proprio da una mancanza di sensibilità corporea, e da una rabbia folle, che non vede l’altro. Davanti a questo cambiamento delle relazioni intime e sociali, tutte le forme di amore e di rispetto per l’altro assumono un valore salvifico. Ciò che conta non è amare il sesso ‘giusto’, ciò che conta è amare l’altro che si riesce ad amare”.
Che cosa cambia a livello psichico tra un bambino che cresce con mamma e papà e uno che cresce con due genitori gay?
“Innanzitutto per un bambino è importante la serenità dell’ambiente in cui cresce. Se i genitori sono gay e si rispettano, si amano, sono aperti alla vita, e rispettano la diversità del bambino, lui coglierà questi valori: si sentirà rispettato e sceglierà liberamente la propria identità. Insomma lo zoppo impara a zoppicare innanzitutto per come si sente trattato. Il bambino che viene umiliato e ferito, comunicherà molto più facilmente umiliando e ferendo l’altro, gli sarà molto più difficile comunicare amando e rispettando l’altro. Oggi occorre ancorarci a questo valore, non al valore di una sessualità ‘normale’ che dovrebbe generare normalità. Nella nostra società nulla è più normale. L’identità di genere è qualcosa che si sente, non qualcosa che si impara. L’omosessualità non dipende dagli influssi ambientali (tranne che per rari casi di abusi subiti nell’infanzia in cui si perde il contatto con il proprio corpo)”.
 
Quali problemi potrebbe avere un bambino cresciuto in una famiglia gay?
“Da un punto di vista intimo, penso gli stessi che avrebbe un bambino ​cresciuto con genitori eterosessuali. I problemi psicologici vengono sempre da un clima familiare che rende difficile al bambino differenziarsi: genitori o troppo invadenti o troppo freddi. Se consideriamo invece il caso di un bambino cresciuto amorevolmente da una coppia omosessuale, mi sembra chiaro che la società gli fa un danno se non riconosce ad uno dei due genitori il diritto/dovere di aiutarlo a crescere nel caso in cui l’altro dovesse mancare”.
 
Perché la società sembra non essere pronta ad accettare la famiglia gay?
“La società stenta a mettersi al passo con l’evoluzione dell’antropologia umana. Così si arrocca su concetti che ormai sono obsoleti: l’amore naturale o contronatura, per esempio. E l’amore di un uomo che violenta brutalmente la propria donna (fatti di cronaca che sono all’ordine del giorno ormai) è più naturale dell’amore rispettoso di una donna verso la compagna? La natura, come la società, non ci protegge più, non è un concetto a cui possiamo fare riferimento. Forse l’amore che trascende i sessi e le situazioni è un concetto a cui oggi possiamo fare riferimento”

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