intenzionalità

Dall’enteroception al sostegno dell’intenzionalità di contatto.

Simulata di una seduta dal vivo

-Margherita Spagnuolo Lobb e Vittorio Gallese

L’articolo consiste nella trascrizione di una seduta dal vivo condotta, durante un convegno, da Margherita Spagnuolo Lobb, e nel commento da parte del neuroscienziato Vittorio Gallese, che ha assistito alla seduta. Il risultato è un originalissimo confronto su temi che riguardano l’interfaccia tra psicoterapia e neuroscienze. La partecipazione del terapeuta, il suo sentire in maniera “incarnata”, diventa possibilità per il paziente di consapevolezza di sé e strumento terapeutico per coglierne e sostenerne l’intenzionalità di contatto. In una prospettiva estetica e processuale, la seduta è stata incentrata sull’esperienza percettiva e propriocettiva in cui la dimensione corporea e le risonanze sensori-motorie e affettive del qui- ed-ora hanno giocato un ruolo fondamentale.

Il neuroscienziato ha inoltre collegato l’enterocezione usata dalla terapeuta (la consapevolezza del battito cardiaco) ai recenti studi sul sistema nervoso autonomo e sistema nervoso centrale, e ha ricordato gli studi sul fenomeno della “mano di gomma”, che rilevano come una maggiore capacità di sentirsi dentro correli con un confine del sé corporeo più stabile, meno facilmente violabile da illusioni.

(…)

1. Commento del professor Vittorio Gallese

Vittorio Gallese. Questo è un tema di grandissima attualità nelle neuroscienze cognitive, la “parola magica” oggi è Enteroception, cioè “enterocezione”, il “sentirsi”. Per esempio, un aspetto affascinante del fumare è quello che attiene al sentirsi da dentro, cioè a sentire i polmoni che si dilatano, che accolgono il fumo, e questa è una sensazione che se viene a mancare, “è il venir meno di qualcosa che contribuisce a farmi sentire quello che sono, il venir meno di una componente che contribuiva a darmi un senso di presenza e di identità”.

Oggi si utilizza il parametro dell’enterocezione, cioè, ad esempio, la capacità di leggere e di diventare consapevoli del proprio battito cardiaco. Questa capacità cambia da individuo ad individuo e si utilizza come oggettivazione dell’esperienza soggettiva, da mettere in relazione con profili di personalità o con quadri psicopatologici.

In un lavoro pubblicato recentemente in cui si impiegava la cosiddetta “illusione della mano di gomma”, si è visto come le persone con un alto grado di consapevolezza enterocettiva, che quindi hanno una percezione della propria frequenza cardiaca che è molto vicina a quella effettiva, sono anche quelle meno prone a questo tipo di illusione. Una maggiore capacità di sentirsi dentro, correla con un confine del sé corporeo più stabile, meno facilmente violabile da questo tipo di illusioni. Nella psicosi schizofrenica, invece, l’essere esposti a questo tipo di illusioni è aumentato. Questa è un’altra prova dell’importanza dei confini del sé corporeo

…Mi chiedo dove si arriva, c’è poi una progressione; hai fatto qualcosa di condensato?

Margherita Spagnuolo Lobb. No, non ho fatto qualcosa di condensato, ma di contestualizzato. Quello che accade …

(…)

Tratto da Quaderni di Gestalt, volume XXIV, 2011/2, Psicoterapia della Gestalt e Neuroscienze
Rivista semestrale di Psicoterapia della Gestalt edita da Franco Angeli, pag. 90

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adolescenza

Giovani funamboli: esperienze depressive in adolescenza

-Michele Lipani e Elisabetta Conte

L’articolo propone una chiave di lettura dell’esperienza depressiva che può essere vissuta da molti adolescenti e che spesso si colloca sul crinale tra “fisiologia” e rischio psicopatologico. L’aspetto fenomenologico viene delineato sullo sfondo di significati culturali, evolutivi, e, in sintonia con l’approccio gestaltico, nella prospettiva della teoria del sé. Alla proposta di lettura teorica seguono alcune possibili direzioni di supporto psicoterapeutico.

(…)

Le “forme depressive” durante l’adolescenza

In adolescenza i segnali del vissuto depressivo sono spesso espressi dal corpo con sintomi somatici, oppure con comportamenti che possono apparire anche molto distanti, se non opposti, rispetto alla tonalità depressiva.

Nella fase preadolescenziale possono manifestarsi difficoltà legate all’inibizione, o ad atteggiamenti e comportamenti più tipici dell’infanzia, pensiamo ad esempio al racconto dei genitori di Edoardo, sgomenti perché il loro figlio quattordicenne, angosciato dalla solitudine, non riesce ad addormentarsi se non è accanto al padre.

In genere è raro che in adolescenza la depressione si manifesti come entità clinica chiaramente definita negli stessi termini in cui lo è per l’adulto, l’isolamento e il ritiro ostinato invadono in misura minore il campo dell’esperienza depressiva adolescenziale.

La valenza depressiva può invece manifestarsi sotto forma di “equivalenti depressivi” quali noia, affaticabilità, dolori addominali, ipocondria, difficoltà scolastiche (Cappelli e Cimino, 2002; Carau, 2008; Saottini, 2008).

Talvolta lo sfondo depressivo può essere “mascherato” dall’assunzione di sostanze o da un’alterazione del rapporto con il cibo. Tali comportamenti, secondo alcuni autori, possono essere letti come tentativi di “autoterapia” nei confronti della depressione (Bracconier et al., 1995).

Altri comportamenti sembrano tentativi di sfuggire alla sensazione di crollo. Seppure inquadrabili in problematiche diverse e complesse, possiamo considerare il significato depressivo di molti comportamenti di tipo aggressivo o comunque a rischio, come quelli di Massimo, il quindicenne che continua ad avere incidenti spericolati con lo scooter; o ancora Carla, la diciassettenne che ha rapporti sessuali con quasi tutti quelli che la corteggiano, e chiede poi come fare a sapere se ha avuto un orgasmo; o Miriam, sua coetanea, che quando è “nervosa” si tagliuzza i fianchi («non le braccia perché i genitori potrebbero accorgersene»).

(…)

Tratto da Quaderni di Gestalt, volume XXVII, 2014/2, La psicopatologia in psicoterapia della Gestalt
Rivista semestrale di Psicoterapia della Gestalt edita da Franco Angeli, pag. 95

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autismo

Le persone con autismo possono riconoscere le emozioni?

-Antonio Narzisi e Filippo Muratori  

Il contributo che qui presentiamo, estrapolato da un più ampio lavoro di ricerca sul profilo neuropsicologico delle persone con autismo ad alto funzionamento condotto presso l’Istituto Scientifico Stella Maris di Pisa (Narzisi et al., 2011), vuole essere un apporto a tale dibattito.

Prima di addentrarci nello specifico del lavoro di ricerca è opportuno ricordare che con il termine disturbi dello spettro autistico (ASD) s’intende una costellazione di disturbi che si caratterizzano per la presenza di una sintomatologia che riguarda una difettualità a livello della comunicazione e dell’interazione sociale e per la presenza di comportamenti stereotipati e ripetitivi (APA, 2000).

Dal punto di vista qualitativo, un sintomo tradizionalmente ascritto alle persone con autismo è quello di non essere in grado sia di decodificare ed interpretare gli stati emotivi dell’altro (Buitelaar, van der Wees, Swaab-Barneveld, van der Gaag, 1999) che di riconoscere le emozioni attraverso compiti di etichettatura delle espressioni facciali esprimenti stati d’animo (Bormann-Kischkel, Vil- smeier, Baude, 1995; Tantam, Monaghan, Nicholson, Stirling, 1989).

La caduta prestazionale delle persone con autismo in compiti di riconoscimento delle emozioni è sottolineata anche da recenti studi di neuroimaging che hanno mostrato una ridotta attivazione del giro fusiforme durante le attività di riconoscimento facciale delle espressioni emotive (Piggot et al., 2004; Wang, Dapretto, Hariri, Sigman, Bookheimer, 2004). Ma, nonostante la letteratura sia concorde nell’affermare una difettualità nelle persone con autismo in compiti di riconoscimento dell’emozione, esiste un corpus sempre più consistente di contributi scientifici che depone in favore del riconoscimento delle emozioni nei soggetti con autismo (Buitelaar et al., 1999; Castelli, 2005; Grossman, Klin, Carter, Volkmar, 2000; Ozonoff, Pennington, Rogers, 1990; Tracy et al., 2011). Secondo questi contributi, le persone con autismo, definite anche “neurodiverse” (Mottron, 2011), mostrano adeguati livelli di prestazioni in compiti standardizzati di discriminazione delle emozioni. …

L’articolo tratta anche i seguenti temi:

2. Il modello psicologico bi-fattoriale
3. Empatia Cognitiva: Verbale vs Contestuale

Tratto da Quaderni di Gestalt, volume XXIV, 2011/2, Psicoterapia della Gestalt e Neuroscienze
Rivista semestrale di Psicoterapia della Gestalt edita da Franco Angeli, pag. 100

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esperienze depressive

Le esperienze depressive in psicoterapia della Gestalt (Parte II)

-Margherita Spagnuolo Lobb

Questo articolo tratta quattro aspetti dell’esperienza depressiva: 1. il suo senso ontologico in quanto esperienza umana, 2. l’epistemologia gestaltica delle esperienze depressive, in confronto con l’epistemologia psichiatrica, 3. una lettura fenomenologica ed estetica delle esperienze depressive in psicoterapia (distinguendo tra depressioni reattive, “incarnate” e psicotiche), 4. una considerazione politico-sociale della depressione giovanile nella società contemporanea.

(…)

Le esperienze depressive (e maniacali) nell’epistemologia della clinica gestaltica e della psichiatria

Occorre chiarire una differenza sostanziale tra l’epistemologia psichiatrica e quella gestaltica dell’esperienza depressiva. La prospettiva psichiatrica sulla depressione parte dalla considerazione di una alterazione dell’umore (cfr. Kraepelin, 1907; Meyer in Lief, 1948). Il concetto psichiatrico di depressione infatti non è di una “diminuzione” dell’energia ma di un aumento non controllato di umore negativo. Questo spiega anche la considerazione della mania come corrispettivo polare della depressione: ambedue sono alterazioni dell’umore, mancanza di controllo della qualità umorale delle relazioni.

Il focus è sull’alterazione dell’umore, non sui contenuti umorali, tant’è che nel caso del disturbo bipolare cambiano i contenuti, non il processo disfunzionale. Una considerazione gestaltica dell’esperienza depressiva deve necessariamente riformulare questo concetto in termini di energia-verso-il-contatto. L’umore infatti è un concetto riferito all’individuo in sé, e non al suo contattare l’ambiente. Il focus si sposta dall’umore al coinvolgimento energetico nel contatto. …

Tornando alla precedente definizione delle esperienze depressive come rinuncia al desiderio di essere desiderati, possiamo dire che nella clinica psicoterapica esse si incontrano frequentemente, sia come una fase evolutiva della persona posta di fronte ad uno stress o ad un lutto, sia come strutturazione “incarnata” dell’esperienza di contatto con l’altro.

Altre volte ancora incontriamo la depressione in modalità esperienziali psicotiche; esse emergono dalla condizione percettiva di base tipica della psicosi, che non consente la leggerezza del sentirsi confinati rispetto all’altro e all’ambiente (cfr. Spagnuolo Lobb, 2003; Francesetti, Spagnuolo Lobb, 2013).

Lo sfondo esperienziale è turbolento e confuso, non consente l’emergere dell’esperienza chiara e nitida di un sé separato dal e connesso col mondo. La figura depressiva prende la forma di uno stato stuporoso, una condizione di irraggiungibilità in cui l’energia del sé appare “sospesa” (mentre in altre forme psicotiche, come nella schizofrenia, c’è energia nello spazio “tra”, che ovviamente non è collegata ad una co- determinazione dei soggetti in contatto).

(…)

L’articolo tratta i seguenti temi:

2.1. Il contatto depressivo come sinfonia di domini
2.2. La depressione reattiva
2.3. La depressione “incarnata”
2.4. L’esperienza depressiva psicotica
2.5. Le esperienze maniacali

Tratto da Quaderni di Gestalt, volume XXVII, 2014/2, La psicopatologia in psicoterapia della Gestalt
Rivista semestrale di Psicoterapia della Gestalt edita da Franco Angeli, pag. 57

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approccio

Verso un approccio più profondamente incarnato

in psicoterapia della Gestalt

-James I. Kepner

Questo articolo esamina criticamente l’evoluzione del lavoro ad orientamento corporeo in psicoterapia della Gestalt. L’autore evidenzia i punti di forza dell’approccio gestaltico, come il lavoro sul presente ed il punto di vista integrato, ma ne sottolinea anche alcune possibili limitazioni teoriche come un’interpretazione troppo ristretta dell’epistemologia dei fondatori, l’inadeguatezza del considerare solo la consapevolezza ai fini del cambiamento psicofisico, la mancata inclusione di concetti strutturali e di metodologie corporee che comprendano il toccare ed il movimento e altri metodi corporei. Viene inoltre descritto un breve modello per mostrare i molti livelli di complessità di un approccio pienamente incarnato.

La pubblicazione di Body Process. Il lavoro con il corpo in psicoterapia (Kepner, 1987; trad. it., 1997) risale a ventuno anni fa. In quel libro avevo tentato di delineare una psicoterapia più pienamente orientata al corpo secondo l’approccio gestaltico. La psicoterapia della Gestalt, infatti, si è da sempre interessata al processo e all’esperienza corporea, ma la sua metodologia in questo ambito era rimasta fino a quel momento molto limitata.

L’uso fatto da molti terapeuti della Gestalt di alcune tecniche corporee intensive era a mio avviso una sorta di innesto di metodi o approcci talvolta incompatibili con le tecniche gestaltiche, e il risultato era spesso un pastic- cio poco integrato. A quei tempi ero un “Giovane Turco” di trentaquattro anni con la presunzione di correggere gli anziani e gli insegnanti del mondo gestaltico, rei a mio parere di non spingersi abbastanza in là nel lavoro corporeo. Forte della mia formazione in metodi prettamente corporei, e dei miei studi approfonditi su processi come la postura, la struttura corporea e il respiro, sentivo di avere una prospettiva precisa e la convinzione di aver qualcosa da dire.

Tuttavia, considero oggi questo testo semplicemente l’elaborazione di un punto di partenza per lo sviluppo di un approccio gestaltico orientato al lavoro corporeo, e solo ora, dopo molti anni di pratica, sono in grado di comprendere più pienamente il significato di un approccio incarnato. Sono d’altra parte grato per il posto che Body Process ha occupato nella letteratura gestaltica in tutti questi anni, come testo di base di molti programmi di formazione.

Certo, mi piacerebbe pensare che la longevità di questo testo sia dovuta alla mia grande erudizione, temo tuttavia che dipenda più che altro dal mancato sviluppo di un più ricco approccio corporeo in psicoterapia della Gestalt. Che Body Process non sia ancora stato soppiantato è forse una cri- tica implicita della attuale situazione della psicoterapia della Gestalt per quanto riguarda il lavoro sulla realtà incarnata della persona.

(…)

L’articolo tratta di:

1. La cosa più reale…
2. Body Process: sequenza non è “conversione”
3. Pezzi mancanti
4. Ampliare l’epistemologia ristretta della psicoterapia della Gestalt1
5. La consapevolezza non è sufficiente per un cambiamento psicofisico
6. Metodi fisici per la terapia corporea
7. Dove ci troviamo e di che cosa abbiamo bisogno
8. Verso un futuro incarnato

Tratto da Quaderni di Gestalt, volume XXVII, 2013/1, L’esperienza corporea in psicoterapia
Rivista semestrale di Psicoterapia della Gestalt edita da Franco Angeli, pag. 67

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specializzazioni palermo

Congratulazioni alle nostre nuove psicoterapeute della Gestalt!

Palermo, 19/01/2018 – ore 17.30

I 19 Gennaio 2018, presso la sede di Palermo dell’Istituto di Gestalt Hcc Italy,  hanno discusso le proprie tesi di specializzazione le dottoresse:

SOFIA CRICCHIO Titolo Tesi “La danza corpo a corpo: un cammino di consapevolezza” – Relatore: Dott.ssa Fabiola Maggio;

MARIA CAROLLO Titolo Tesi “Neuroestetica e Psicoterapia della Gestalt. Teoria e clinica” Relatore: Dott. Pietro Andrea Cavaleri;

SIMONA LO PICCOLO Titolo Tesi “Quando diventare genitori è difficile. La co-genitorialità nelle gravidanze a rischio: un’osservazione clinica” Relatore: Dott.ssa Barbara Crescimanno;

LOREDANA SIRAGUSA Titolo Tesi “Vivere di noia: un viaggio dal vuoto sterile al vuoto fertile” Relatore: Dott.ssa  Nunzia Sgadari.

Alle nuove psicoterapeute della Gestalt auguriamo di poter affrontare il proprio percorso di crescita professionale con creatività ed entusiasmo, portando nei contesti sociali e professionali che vi circondano i principi vitali e scientifici della psicoterapia della Gestalt

Buona vita ad ognuna di voi!

Auguri alla nuova Psicoterapeuta della Gestalt!

Il 12 Gennaio 2018, presso la sede di Milano dell’Istituto di Gestalt Hcc Italy ha discusso la propria tesi di specializzazione la dott.ssa

FEDERICA MIDIRI Titolo Tesi “Proposta per un uso gestaltico dell’EMDR nel trattamento dei disturbi alimentari” – Relatore: Dott.ssa Elisabetta Conte.

A lei porgiamo i migliori auguri per un futuro professionale soddisfacente, ricco di creatività e sempre ispirato ai principi della psicoterapia della Gestalt.

Auguri da tutto lo staff dell’Istituto di Gestalt Hcc Italy!

Milano, 12/01/2018 – ore 18.30

espressione vocale

L’espressione vocale nel trattamento gestaltico dei disturbi psicosomatici

-Оleg V. Nemirinskiу e Oksana G. Shevchenko

Questo articolo descrive una modalità di applicazione dell’approccio gestaltico ai disturbi psicosomatici: il sintomo viene considerato come una “contraddizione congelata” e una combinazione di retroflessione e proiezione. Inoltre propone una integrazione metodologica del lavoro con i processi corporei e relazionali.

Gli autori presentano un metodo di intervento con la voce nella terapia psicosomatica. Vengono descritte sessioni di lavoro con la voce, tecniche specifiche e un caso clinico. Per concludere, vengono presentati due casi che illustrano il lavoro con il sintomo psicosomatico e le fasi e le tecniche utilizzate in terapia.

Alla fine degli anni ’20 del secolo scorso, si osserva un crescente interesse da parte di psicoterapeuti di diverse scuole nei riguardi dell’utilizzo della voce (Austin, 1993; Gregory, 2009; Newham, 1998; Overland, 2005, ed altri).

Nella terapia psicoanalitica sono noti i lavori di Diane Austin (1993), basati sulla teoria di Jung e delle relazioni oggettuali di Winnicott, in cui la voce viene vista come qualcosa che contiene importanti informazioni sul passato e in particolare sulla prima esperienza di relazione tra madre e bambino.

L’utilizzo della voce è specifico dei terapeuti che si focalizzano sulla consapevolezza corporea (Linklater, 1976; Newham, 1998). Paul Newham, vocalista come prima formazione e psicologo come seconda, sviluppò un metodo di terapia vocale che chiamò Therapeutic Voicework. Egli individuò dieci parametri acustici per la voce umana, che riflettono diversi stati, significati e qualità della personalità.

Gli obiettivi della terapia vocale sono legati all’ampliamento del campo espressivo che dà al paziente la possibilità di acquisire una nuova esperienza emozionale.

Nell’approccio gestaltico sono conosciuti i lavori di Susan Gregory (2004; 2009), la quale associa il lavoro con la voce e con il canto a diversi esercizi (una parte dei quali è legata al movimento) e al lavoro terapeutico tradizionale. Partendo da esercizi vocali di produzione del suono, associati ad una particolare attenzione per il respiro e il radicamento, si passa ad esercizi ritmici, alla percezione estetica della melodia ed infine al cantare le parole. Il testo di una canzone viene anche visto come narrativo della personalità. Come scrive Susan Gregory (2009) ogni individuo ha una canzone che per lui è molto importante per via del contesto in cui l’ha cantata o l’ha ascoltata. Nelle canzoni si concentra la propria storia personale. Ciò rende la terapia vocale assai efficace nel lavoro con i traumi e anche nella risoluzione di altri problemi in terapia individuale e di gruppo.

Nel presente articolo descriviamo lе possibilità dell’uso della voce nel lavoro con i disturbi psicosomatici.

1. Sintomo e contatto

In psicoterapia della Gestalt, è importante riferirsi al concetto di doppia natura del sintomo (Perls, Hefferline, Goodman, 1951). Il sintomo, in quanto adattamento creativo, costituisce un paradosso: è espressione di vitalità e contemporaneamente “difesa” contro la vitalità, manifestazione di qualche “problema” e al tempo stesso tentativo di risolverlo. Il terapeuta gestaltico intende il sintomo non soltanto come motivo di sofferenza per il paziente, ma anche come fonte potenziale delle sue forze vitali. L’eccitazione bloccata viene immobilizzata e contenuta nel sintomo in forma latente (nei casi semplici sotto forma di tensione cronica vera e propria, ma questo riguarda qualsiasi sintomatologia). (…)

Seguenti capitoli:

2. Il lavoro con la voce
3.La voce nel lavoro con i disturbi psicosomatici
4. Un caso clinico

Tratto da Quaderni di Gestalt, volume XXVII, 2013/1, L’esperienza corporea in psicoterapia

Rivista semestrale di Psicoterapia della Gestalt edita da Franco Angeli, pag. 125

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afferrare l'altro

Afferrare l’altro. Intervista a Vittorio Gallese

-Piero A. Cavaleri

Vedere è attivare la via visiva, ma guardare vuol dire “afferrare l’altro”, mettersi in un rapporto di apertura nei confronti dell’altro. Vediamo non solo con la vista, ma anche con il tatto, con l’udito, con l’azione. L’isomorfismo non è la riproduzione di una struttura, ma è “l’afferramento” di un corpo che si emoziona. L’emozione si è evoluta come uno strumento di negoziazione interpersonale. Emozionarsi non è solo sentirsi, ma sentire nell’esprimersi. Occorre guardare all’uomo partendo non dal cervello, ma dalla persona. L’identità è un pro- cesso di co-costruzione in cui l’altro gioca un ruolo fondamentale. Se l’altro manca, sono mutilate le potenzialità di individuazione di ognuno.

(…)

Pietro A. Cavaleri. Per riassumere quello che stai dicendo dalla nostra angolatura gestaltica, possiamo affermare che l’emozione è “relazionale”, l’emozione è il corpo che, relazionandosi, esprime qualcosa.

Vittorio Gallese. Dirò di più! Se noi usiamo il cervello come un modo per arrivare all’emozione e capire che cosa è quello che si sta vedendo, basta farsi certe domande e qui si ottengono delle risposte interessanti. C’è un lavoro del gruppo di Giampiero Arciero, pubblicato quest’anno, che dimostra come in soggetti con personalità diversa, quando vedono il volto del partner che esprime il dolore, anche se cognitivamente sono esattamente identici nel valutare l’intensità del dolore attribuito all’altro, il grado di spiacevolezza verosimilmente provato dall’altro, si attivano in loro parti del cervello diversissime.

Questo vorrà pur dire qualcosa! Ciò vuol dire che è impensabile sostenere che, per tutti noi che siamo qui dentro, provare paura significhi attivare la stessa area del cervello. Mi stupirei moltissimo! Sarebbe bello se avessi la bacchetta magica e, schioccando le dita, riuscissi a vedere contemporaneamente cosa succede nel cervello di ognuno di noi, me compreso, mentre lei (riferendosi a Margherita) ci evoca un’emozione di un certo tipo.

Questo oggi apre scenari, io credo, inimmaginabili, anche dal punto di vista della psicofarmacologia. Quando si stancheranno di fare ricerche sulla working memory, e invece cercheranno di mettere a fuoco l’esperienza, la presenza, queste cose che mi sembra di capire siano molto importanti anche per voi, allora non è così fantascientifico ipotizzare, se c’è la volontà di farlo, dei trattamenti psicofarmacologici, non dico calibrati e costruiti su misura come l’abito che ti fa il sarto, ma qualcosa di molto simile. E così lasciare alle spalle un’epoca in cui si cura la depressione con farmaci che, dopo vent’anni, si scopre non essere antidepressivi.

Adesso vanno di moda gli stabilizzatori dell’umore, fra dieci anni sarà di moda qualcos’altro. Adesso iniziamo ad imbottire i bambini di “Ritalin”. Arriviamo 15 anni dopo gli americani, che già da qualche tempo hanno capito che forse è meglio darsi una calmata! Ecco, c’è un mondo da scoprire, però solo se si è disposti a guardare all’uomo attraverso lo studio del cervello, partendo però non dal cervello, ma dalla persona.

Pietro A. Cavaleri. Un’ultima domanda. Margherita al paziente: “mi vedi”? “senti che ti vedo”? La relazione intersoggettiva è alla base di ogni forma di psicoterapia. La scoperta dei neuroni-specchio ha contribuito a dare una base neurofisiologica all’esperienza intersoggettiva. Come è possibile che, rispecchiando l’altro, io riconosco me, definisco meglio me? Cosa accade?

(…)

Tratto da Quaderni di Gestalt, volume XXIV, 2011/2, Psicoterapia della Gestalt e Neuroscienze
Rivista semestrale di Psicoterapia della Gestalt edita da Franco Angeli, pag. 27

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  1. Video seminario: Le neuroscienze applicate all’esperienza estetica con il prof. Vittorio Gallese
crescite difficili

Crescite difficili. La Gestalt incontra il trauma

-Anna Fabbrini

Il testo affronta il tema del trauma relazionale. Prende in esame la relazione di cura basata sul potere e i suoi effetti distruttivi sulla crescita cognitiva ed emotiva della persona, privata del riconoscimento identitario. Gli strumenti della psicoterapia della Gestalt, la ricostruzione autobiografica e l’elaborazione della memoria corporea, si sono rivelati efficaci per generare nuove matrici di dipendenza fiduciosa in grado di riparare il danno.

(…)

La crescita sana

In una crescita sana la relazione genitore-figlio generalmente è caratterizzata da una dominanza di benevolenza, tanto che l’amore materno e genitoriale è il paradigma stesso di tutte le forme di amore. Il bambino viene al mondo biologicamente e psicologicamente dipendente con un bisogno assoluto di cure per la sua sopravvivenza e il rapporto di accudimento non riguarda solo il fatto di stabilire una buona relazione affettiva, ma ha una portata che potremmo definire ecologica, in quanto genera mutamenti positivi anche nell’intero ambiente dentro il quale il bambino è immerso con tutte le altre presenze (cfr. Bollas, 1989).

Una buona relazione di cura attraverso lo scambio di affetti e premure, non influenza solo la relazione ma è produzione culturale. È la creazione di un intero mondo di valori, significati e legami estesi. La relazione di cura diventa così la matrice della bontà del mondo, oltre che costruire il fondamento della fiducia primaria.

Anche se oggi siamo propensi a vedere il bambino come un essere fin da subito competente, interattivo, e relazionale, nessuno negherebbe che si trova in una posizione strutturalmente asimmetrica e totalmente dipendente in quanto la relazione tra il genitore e il piccolo è caratterizzata per sua natura, dalla presenza di ampio spazio di potere da parte dell’adulto.

È evidente che in una crescita sana questo potere viene interamente messo al servizio della cura e lo scambio che si stabilisce è abitato, oltre che dall’amore, dal senso etico che il piccolo è una persona degna di rispetto, è portatore di una sua individualità.

Questa forma di contatto, che mantiene per lungo tempo l’asimmetria che lo caratterizza – questo processo, nella nostra cultura dura almeno un ventennio – si fonda sul rispetto della persona, dicevo, non malgrado, ma proprio grazie al giusto riconoscimento della dipendenza che determina i ruoli diversi.

L’adulto esplica il suo compito attraverso l’affetto e la protezione, ma anche attraverso gli interventi correttivi, educativi, il dare le regole e il fornire tutte le forme di insegnamento e trasmissione della conoscenza del mondo. Il potere dell’adulto è dunque la messa in atto di quello che Hillman (2009) chiama il potere sottile, che compara a quello del giardiniere che coltiva e fa crescere e che negli esseri umani, coltiva e fa crescere la creatività, la disposizione ad apprendere dall’esperienza, il senso della fiducia, della giustizia, della speranza e del coraggio, la capacità di riparazione, il sogno e il desiderio.

Del potere si parla troppo poco in psicologia perciò mi ha molto colpito quella che ritengo essere una delle definizioni più belle che ho incontrato riguardo all’obiettivo della psicoterapia della Gestalt: «Il massimo scopo della terapia della Gestalt è di volgere le relazioni di potere in relazioni d’amore» (Portele, 1995, p. 58).

In questo contesto, la parola amore evoca non semplicemente un moto del cuore, ma presenza di una costellazione articolata di sentimenti e di principi etici come: il rispetto, l’ascolto, la disposizione a valorizzare la diversità anche in presenza di un eventuale conflitto, volgendolo a confronto, ad argomentazione o negoziato, assumendo che l’altro sia portatore di una mente e di una dignità così come noi abbiamo una nostra mente e una nostra dignità.

(…)

Tratto da Quaderni di Gestalt, volume XXVII, 2014/2, La psicopatologia in psicoterapia della Gestalt
Rivista semestrale di Psicoterapia della Gestalt edita da Franco Angeli, pag. 81

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