vissuti sessuali

I vissuti sessuali: dal potere dell’io al campo fenomenologico

I quaderni di Gestalt si raccontano: 2014 1 in breve

Sarà giusto celebrare Eros, il quale sia nel tempo presente ci procura i più grandi benefici, conducendoci verso ciò che ci appartiene, sia per il tempo avvenire offre le speranze più grandi (…), ricostituendoci nella nostra natura antica e risanandoci, ci renderà beati e felici.
Platone, Simposio

I contributi di questo numero dei Quaderni di Gestalt sono dedicati ai vissuti sessuali, una tematica fondante in ogni percorso psicoterapico. Nonostante la sessualità sia centrale nell’epistemologia gestaltica, e sia stata posta al cuore della rivoluzione sociale e politica auspicata dai fondatori, c’è un vuoto paradossale in letteratura e nei programmi di formazione che, a volte, contribuisce a generare nel terapeuta il vissuto di essere impreparato, in bilico tra etica e spontaneità, nel gestire la relazione quando in seduta emergono vissuti sessuali ed emozioni intime.

Le storie di vita dei nostri fondatori, la rivoluzione epistemologica, politica e sociale da loro promossa parlano della fiducia in una sessualità che, alla stregua di tutti gli altri impulsi, se vissuta nella pienezza dei sensi e del contatto, si orienta verso una fisiologica e spontanea capacità di autoregolazione. È stata proprio la fiducia nell’autoregolazione che ha consentito ai fondatori, negli anni Quaranta, di superare i limiti dell’allora vigente prospettiva psicologica e culturale basata sulla dicotomia natura/cultura (cfr. Spagnuolo Lobb, 2011, p. 132 ss.). Oggi questa fiducia nella spontanea integrazione tra impulsi individuali e vivere sociale necessita di essere contestualizzata nei vissuti sessuali della società post-moderna, e declinata in una prassi psicoterapica che sia garanzia di etica e rigore deontologico all’interno delle relazioni di cura.

La formazione in psicoterapia della Gestalt addestra ad una relazione terapeutica autentica e reale, in cui il terapeuta è inserito a pieno titolo in ogni vissuto portato dal paziente. I concetti di campo fenomenologico e di confine di contatto, già presenti nel pensiero dei fondatori, sono diventati oggi la cifra ermeneutica che ci consente di dimorare nella complessità della società attuale. Essi costituiscono la cornice da cui ogni accadimento riceve senso, il punto in cui si verifica l’esperienza e il luogo dove avviene la crescita. I vissuti sessuali non sono esenti da questa formazione orientata al qui ed ora della relazione, al cambiamento generato dall’esperienza co-creata all’interno della “traità” terapeutica.

Eppure è come se per questi sentimenti, certamente più intimi e sfidanti le reazioni profonde del vissuto del terapeuta, fosse facile calare un sipario sedante, che appiattisce le potenzialità di cambiamento contenute nell’emozione sessuale del paziente (o del terapeuta). Come scrivono Perls et al. (1971, p. 42): «Il problema non è costituito da ciò che viene sperimentato, ricordato, fatto o detto, ecc., quanto da come viene ricordato ciò che ricordiamo, da come dicia- mo quello che diciamo, con quale espressione del volto, con quale tono della voce, con che tipo di sintassi, con quale postura, sulla base di quale emozione (…)».

Sappiamo che sostenere il come è la bussola dell’intervento terapeutico gestaltico, ma pensare che questo come nasce come figura dotata di energia intenzionale da un campo fenomenologico condiviso rappresenta uno sviluppo importante, capace di fornire senso e direzione all’energia portata in seduta dal paziente.

Inoltre, grazie al nostro sguardo fenomenologico, di campo ed estetico, che sostiene l’energia armonica e complessa verso una tensione alla cura, anche il sentimento sessuale del terapeuta può essere visto in modo contestualizzato al campo e dunque dotato di senso relazionale.

Lavorare all’interno di questa cornice implica avere elaborato, come terapeuti, la propria funzione personalità, ed essere giunti ad una chiara e solida risposta alla domanda “chi sono io qui ed ora?”. Implica avere attraversato un percorso personale psicoterapico, essere stati immersi ed avere elaborato il “fuoco sacro” dell’Eros, per giungere ai nostri pazienti consapevoli, liberi dal desiderio e da quote narcisistiche, e con l’unica intenzionalità che è quella della cura.

Margherita Spagnuolo Lobb e Teresa Borino

Quaderni di Gestalt, volume XXVII, 2014-1, I vissuti sessuali in psicoterapia
Rivista semestrale di Psicoterapia della Gestalt, edita da FrancoAngeli, pag. 74.

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I luoghi della mente e la bellezza

– Pietro A. Cavaleri.

Per migliorare la salute della mente occorre avere cura non solo dell’organismo umano, ma anche dell’ambiente che lo circonda. L’ambiente al quale l’autore si riferisce non è soltanto quello sociale, costituito da altri esseri umani, ma anche un ambiente fatto da realtà e presenze “non-umane”, come gli oggetti, gli spazi, le abitazioni. Sappiamo da tempo come non sia possibile comprendere la mente senza tener conto dei suoi ambienti umani (la famiglia, la comunità, la rete sociale). È giunto il momento di evidenziare come la comprensione e la cura della mente passino anche attraverso una debita considerazione dei suoi “ambienti non-umani”, cioè dei suoi spazi di vita, dei suoi principali “luoghi” di riferimento, come la casa, la città o, più in generale, la natura.

L’uomo e l’ambiente non-umano

Da lungo tempo la cultura occidentale ama utilizzare la metafora della profondità per indicare, soprattutto sul piano qualitativo, qualcosa di molto consistente e pregevole. Non a caso, infatti, è “profonda” una persona che possiede un sapere elevato o un animo molto sensibile. È “profondo” un pensiero originale o complesso. È “profonda” un’amicizia che è stata vagliata dal tempo e dalle difficoltà. È “profondo” un uomo che sa intuire e cogliere in pieno ciò che agli altri sfugge del tutto. Di contro, è “superficiale” tutto ciò che rimanda all’ovvio, al banale, ad una realtà scontata, già vista.

Sicché, per fare un esempio, se la mente con le sue innumerevoli astrazioni e con le sue sofisticate operazioni logiche è “profonda”, il corpo umano con il suo banale coacervo di muscoli e viscere, con la sua scontata fisicità, appare “superficiale”, come del resto l’ambiente che lo circonda, fatto di bruta materia e di inermi estensioni. In modo del tutto implicito, la cultura occidentale contrappone rigidamente la profondità della mente alla superficiale e materiale fisicità del corpo umano. Da un lato è posta la mente e la sua profonda capacità di elaborazione razionale, da un altro lato viene collocato il corpo, con le sue meno nobili funzioni fisiologiche, con le sue strutture meccaniche, con le sue forze istintuali.

Contraddicendo questo radicale dualismo, erroneamente introdotto da un filosofo francese di nome Cartesio, autorevoli studi nell’ambito della neurobiologia hanno dimostrato come la complessa e inafferrabile profondità della mente, quasi paradossalmente, abbia la sua origine e il suo costante alimento nella inesplorata superficie del “confine di contatto”, cioè nella pelle del nostro corpo, nei nostri organi di senso e in ogni altro spazio in cui si concretizza la fondamentale interazione tra l’organismo umano e l’ambiente che di continuo lo circonda (Cavaleri, 2003; Perls, Hefferline, Goodman, 1971).

La mente “pura”, scissa dal corpo, è da considerarsi una astrazione inaccettabile. Il cervello umano e il resto del corpo, invece, costituiscono un organismo inscindibile che, a sua volta, non potrebbe sussistere senza interagire costantemente con l’ambiente circostante. Infatti, è dall’interazione fra cervello, corpo e ambiente che si sviluppano quei processi fisiologici che noi chiamiamo mente.

Sia nei suoi aspetti più elementari, che in quelli più complessi, l’attività della mente implica sempre il coinvolgimento del cervello e del corpo. Le stesse “rappresentazioni” cerebrali (le immagini mentali) non sono mai pure, non possono in qualsiasi caso prescindere dall’esperienza sensoriale. Esse richiedono la presenza del corpo, che fornisce la “materia” indispensabile, fatta essenzialmente di sensazioni, di percezioni, di tensioni muscolari. Le più diverse manifestazioni della razionalità umana sono orientate e sostenute dai sentimenti e dalle emozioni, che a loro volta sono espressione dei meccanismi di regolazione biologica del nostro corpo.

Ciò che in genere viene definita “mente” non può nascere e sussistere senza quella cornice fondante che è il “corpo”. Le nostre azioni più importanti, i nostri pensieri più elevati, le nostre gioie più grandi, i nostri dolori più indelebili hanno come riferimento costante il corpo. Se in passato Cartesio aveva detto: “Penso, dunque sono”, alla luce di queste considerazioni potremmo affermare il contrario: “Sono, dunque penso”. Sono un corpo, sono un flusso di percezioni, di sensazioni, di sentimenti e di emozioni, dunque tutto ciò diventa “materiale” oggetto del mio pensiero e rende possibile il mio stesso pensare.

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Articolo tratto da Quaderni di Gestalt, volume XXIV, 2011-2, Psicoterapia della Gestalt e Neuroscienze
Rivista semestrale di psicoterapia della Gestalt edita da FrancoAngeli, pag. 26.

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Dsm 5

I disturbi sessuali nel DSM 5.

Aspetti relazionali tra vecchie e nuove diagnosi

-Maria Salvina Signorelli.

L’articolo analizza i cambiamenti nella classificazione diagnostica dei disturbi sessuali nel passaggio dal DSM IV-TR al DSM 5. Sottolinea, oltre all’inquadramento nosografico, l’importanza di cogliere l’aspetto relazionale di tali disturbi e propone la lettura fenomenologica e relazionale della psicoterapia della Gestalt.

L’American Psychiatric Association (APA) ha pubblicato nel 2013 l’ultima edizione del Manuale Statistico Diagnostico dei Disordini Mentali (DSM 5). A differenza della precedente edizione, nel DSM 5 i disturbi sessuali non sono più inclusi in un’unica categoria diagnostica, ma vengono distinti in: Disforie di Genere, Parafilie e Disfunzioni Sessuali.(…)

Le disfunzioni sessuali

Quando un problema sessuale diventa una disfunzione o un disturbo?
Qual è il confine tra normale e patologico?
Alcune condizioni, come la disfunzione erettile, possono essere considerate una variazione della normale risposta sessuale, una alterazione transitoria del normale funzionamento, effetto di patologie mediche sistemiche, o possono emergere come conseguenza di un problema relazionale o in risposta a comportamenti del partner. Da qui la necessità nel DSM 5 di utilizzare definizioni più precise, sia in termini temporali che sul meccanismo di funzionamento coinvolto, atte a differenziare un disturbo sessuale da una condizione transitoria (Sungur, Gündüz, 2014).

Il rapporto con il ciclo della risposta sessuale, che ha determinato nelle precedente edizione del manuale la suddivisione delle disfunzioni in tre aree disfunzionali (area del desiderio, dell’eccitazione e dell’orgasmo), si è fortemente indebolito (Sungur, Gündüz, 2014). Al contrario, la recente letteratura ha dimostrato che la risposta sessuale non è un processo lineare ed uniforme, e la distinzione dei disturbi in funzione delle fasi (ad esempio desiderio ed eccitazione) può essere artificiosa.

Altro importante aspetto è che fino al DSM 5 la risposta sessuale nei differenti generi veniva considerata analoga, mentre sempre più la letteratura scientifica attuale concorda sul fatto che l’interesse sessuale, la motivazione, l’arousal ed il piacere posso essere esperiti differentemente nei due generi (Sungur, Gündüz, 2014). Per ciò che concerne le disfunzioni del sesso femminile queste sono state unificate nel disturbo del desiderio sessuale e dell’eccitazione sessuale femminile. Il vaginismo e la dispareunia sono stati conglobati nel disturbo del dolore genito-pelvico e della penetrazione (Goldstein et al., 2005). È stato aggiunto un nuovo disturbo relativo all’eiaculazione ritardata, in cui il soggetto sperimenta un marcato ritardo o assenza d’eiaculazione, non intenzionali o desiderati, in quasi tutte le occasioni di attività sessuale con un partner. Bisogna, come già detto in precedenza, prestare attenzione alla diagnosi differenziale con altre condizioni mediche (neuropatie periferiche, patologie della prostata, ecc.) o a disturbo simile ma indotto da sostanze. Vengono mantenuti il disturbo erettile, il disturbo dell’orgasmo femminile, il disturbo del desiderio ipoattivo maschile, l’eiaculazione precoce.

Il disturbo da avversione sessuale è stato abolito dalle categorie principali e spostato in “altre disfunzioni sessuali specifiche” (Borg et al., 2014).

Per aumentare l’accuratezza diagnostica e ridurre le sovrastime legate a problemi sessuali transitori, le disfunzioni devono avere una durata minima di sei mesi, ad eccezione di quelle secondarie all’uso di sostanze. Ancora una volta però la raccomandazione è quella di considerare i sintomi sessuali come disturbi psichici solo dopo aver escluso ogni componente organica. La collaborazione tra specialisti diventa quindi ulteriormente valorizzata.

Inoltre, mentre nel DSM IV-TR la definizione al criterio B di distress nelle disfunzioni sessuali era quella di “marcato distress e difficoltà interpersonali”; il DSM 5 ha riformulato marcato distress come “distress clinicamente significativo nell’individuo” ed ha cancellato nel criterio C la dimensione “difficoltà interpersonali”. Nonostante, nella maggior parte dei casi, l’attività sessuale coinvolge almeno due partner, molti clinici sottolineano che un distress sessuale debba considerarsi un disturbo sia quando causa un disagio personale sia quando causa difficoltà interpersonali. (Sungur, Gündüz, 2014).

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Articolo tratto da Quaderni di Gestalt, volume XXVII, 2014-1, I vissuti sessuali in psicoterapia
Rivista semestrale di Psicoterapia della Gestalt, edita da FrancoAngeli, pag. 74.

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empatia

Empatia incarnata tra psicoterapia della Gestalt e neuroscienze

– Valeria Rubino.

In accordo con il nuovo trend culturale che sancisce nell’uomo il primato della dimensione relazionale, l’articolo si propone di approfondire alcune riflessioni teoriche sul concetto di empatia sia in seno alla psicoterapia della Gestalt che in ambito neuroscientifico. Obiettivo del presente lavoro è individuare spunti di condivisione tra i risultati ottenuti dall’Infant Research, le neuroscienze ed alcuni elementi teorici ed epistemologici della psicoterapia della Gestalt.

(…)

Empatia e neuroscienze

Molti degli spunti teorici ed epistemologici caratteristici della psicoterapia della Gestalt, dalla tradizionale teoria del contatto al nuovo modo di concepire l’empatia, trovano un concreto riscontro nelle ultime e straordinarie scoperte raggiunte in ambito neuroscientifico. Nell’ultimo decennio, infatti, si sono compiuti ragguardevoli progressi nell’individuare i substrati neurali alla base dell’intersoggettività e dell’empatia.

 I neuroni specchio

Alcune importanti ricerche, compiute in ambito neurobiologico, hanno rivelato la presenza nel cervello di un gruppo particolare di neuroni, chiamati “neuroni specchio”, la cui caratteristica sarebbe quella di eccitarsi sia quando un soggetto compie una determinata azione, sia quando è un altro a compierla innanzi ai suoi occhi (Rizzolatti, 2006). Secondo alcuni scienziati, questa scoperta potrebbe spiegare il fenomeno dell’empatia rivelandone una presunta base biologica.

Le strutture neuronali coinvolte, infatti, quando noi proviamo determinate sensazioni ed emozioni sembrano essere le stesse che si attivano quando attribuiamo a qualcun altro quelle “stesse” sensazioni ed emozioni. La scoperta dei neuroni specchio è da attribuirsi ad un gruppo di ricercatori italiani che, attraverso studi elettrofisiologici condotti sul cervello del macaco, hanno individuato una classe di neuroni, situati nella porzione ventrale dell’area F5 della corteccia premotoria, e nella regione posteriore del lobo parietale (Gallese et al., 1996, 2002; Fogassi et al., 2005).

La peculiarità di questo gruppo di neuroni riguarda il loro attivarsi non solo quando la scimmia esegue azioni motorie finalizzate al raggiungimento di uno specifico scopo, ma anche quando altre scimmie eseguono azioni simili. Studi successivi hanno dimostrato che, oltre ad una funzione strettamente motoria, una particolare classe di neuroni specchio possiede anche funzioni audiovisive, attivandosi non solo durante l’esecuzione e l’osservazione delle azioni, ma anche di fronte al suono da esse prodotto.

Le straordinarie potenzialità di tali scoperte hanno indotto i neuroscenziati a ricercare anche nell’uomo l’esistenza di un sistema di neuroni specchio, ed i risultati di molteplici studi neurofisiologici e di neuroimaging funzionale, convergono nell’aver individuato anche nell’uomo un sistema mirror localizzato in regioni parieto-premotorie, verosimilmente omologhe a quelle descritte nella scimmia (Rizzolatti, Fogassi, Gallese, 2001; Gallese, Keysers, Rizzolatti, 2004).

La mole di informazioni che nel corso degli anni si sono accumulate sui neuroni specchio, hanno permesso di considerare questo meccanismo non come un semplice sistema finalizzato all’imitazione, ma come la base neurale di una forma diretta di comprensione dell’azione altrui.

Quanto fin qui esposto ci permette di postulare l’esistenza di un substrato neurale preposto a comprendere le azioni compiute dall’altro, una base neurofisiologica della comprensione empatica.

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Articolo tratto da Quaderni di Gestalt, volume XXIV, 2011-2, Psicoterapia della Gestalt e Neuroscienze
Rivista semestrale di psicoterapia della Gestalt edita da FrancoAngeli, pag. 26.

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trauma

Crescite difficili. La Gestalt incontra il trauma

– Anna Fabbrini.

L’articolo affronta il tema del trauma relazionale. Prende in esame la relazione di cura basata sul potere e i suoi effetti distruttivi sulla crescita cognitiva ed emotiva della persona, privata del riconoscimento identitario. Gli strumenti della psicoterapia della Gestalt si sono rivelati efficaci per generare nuove matrici di dipendenza fiduciosa in grado di riparare il danno.

Introduco con le parole di una mia paziente che mi hanno ispirato il titolo:

Quando qualcuno mi chiede …
dico che ho avuto una vita difficile … Tanto per dire qualcosa.
Nessuno potrebbe comprendere
il terrore in cui sono cresciuta …

Ho scelto di parlare delle crescite difficili per portare una testimonianza del mio lavoro clinico di questi anni con persone che hanno subìto dei traumi in età infantile. Nel condividere queste mie riflessioni, mi propongo anche di fare qualche collegamento tra la teoria evolutiva di riferimento e la pratica clinica gestaltica. E questa è anche un’occasione per meditare su uno dei mali del nostro tempo, non certo nuovo, un male antico che oggi prende grande visibilità. Mi riferisco alla violenza morale e fisica verso i piccoli che è molto più presente di quello che pensiamo e che sentiamo così sconcertante quando arriva a diventare fatto di cronaca. Sullo sfondo, meditiamo anche su un altro male del nostro tempo: la pressione sociale alla felicità e la rimozione del dolore.

E dedico questo intervento a tutte quelle persone che sono stati bambini cresciuti nella solitudine e nel terrore.

Il trauma

Un trauma – dice Winnicott (1996) – «è una frattura nella continuità dell’esistenza dell’individuo (…) ed è solo grazie al senso di continuità dell’esistenza che può realizzarsi, nella persona, il senso di sé, del sentirsi reali e dell’esistere» (p. 13). Questa frattura d’esistenza può essere causata da un evento puntuale, come un incidente o una perdita improvvisa e produce, in questo caso, quel complesso sintomatico conosciuto come Sindrome da Stress Post Traumatico (DPTS).

In questa sede, però, farò riferimento a un altro tipo di trauma, quello che deriva dalla inadeguatezza del sistema delle cure primarie, quando cioè l’ambiente familiare è privo dei requisiti idonei all’accoglimento e alla protezione dei figli, al loro accudimento e alla trasmissione del sapere relazionale e culturale. In questo caso parliamo di crescita traumatica o Disturbo Post Traumatico da Stress Complesso (DPTSc) che è di natura relazionale.

A questo punto della stesura del mio testo, cercavo qualche esempio per darvi un’idea del tipo di problemi di cui parlo e mi sono venuti in mente volti e storie di adulti che ho incontrato.

Ho pensato a Maria, nata non voluta da una madre intellettuale che si sentiva rovinata dalla maternità, che per tutta la vita ha rimpianto una carriera fallita causata – a suo dire – dalla presenza dei figli. Affidata alla nonna fino all’età di quattro anni, per tutta la sua vita si è sentita ripetere: «Io i figli non li volevo… era meglio se non nascevi».

Ho pensato a Lucia, anch’essa allontanata da casa, figlia di una coppia simbiotica che la sentiva minaccia dell’intimità coniugale. Come conforto alle sue incertezze adolescenziali riceveva dalla madre frasi come: «Bisogna che tu accetti la verità… sei brutta. Non potrai piacere mai a nessuno… nessuno ti vorrà».

Ho pensato a Renata, abusata dal padre che le diceva col fiato sul collo: «Questo non è mai successo. Se lo dici ti ammazzo»… mentre nella stanza a fianco la mamma – maniaca dell’ordine e della pulizia – passa l’aspirapolvere per non sentire il rumore… (…)

E ho pensato ad altri ancora. Storie diverse, ma con un aspetto in comune: l’uso malvagio e perverso del potere dell’adulto sul bambino. Per affrontare un tema di questa complessità ci sono tante direzioni possibili. Io ho scelto di seguire il filo di una riflessione concentrandomi sulla deviazione della naturale disparità tra genitore e figlio quando, invece di esprimersi come cura, prende la direzione dell’assoggettamento, della manipolazione.

(…)

L’articolo approfondisce i seguenti temi:

  • la crescita sana
  • la crescita traumatica
  • limen
  • linee dell’azione terapeutica

 

Articolo tratto da Quaderni di Gestalt, volume XXVII, 2014-2, La psicopatologia in psicoterapia della Gestalt
Rivista semestrale di psicoterapia della Gestalt, edita da FrancoAngeli, pag. 81

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training autogeno

Training Autogeno come strumento di contatto: un caso di dispareunia

– Giuseppe Sampognaro

Viene descritto il lavoro di coppia su un caso di dispareunia. Decisiva, in senso terapeutico, è stata l’applicazione del Training Autogeno, un metodo che – utilizzato in ottica gestaltica – facilita il contatto sia tra emozioni e sensazioni corporee, sia tra chi chiede e offre sostegno.

Una domanda che spesso mi viene rivolta è: «Ti occupi anche di terapia sessuale?».  Sono d’accordo con Nancy Amendt-Lyon quando afferma: «Non pratico la terapia sessuale come un metodo separato dalla terapia della Gestalt. Così come per tutti gli altri problemi relazionali, mi occupo di quelli sessuali nel loro contesto, con la convinzione che la sessualità passa attraverso pressoché ogni difficoltà o gioia che emerge in terapia» (2013, p. 587).  La psicoterapia della Gestalt è un modello olistico che propone un approccio trasversale a ogni situazione di disagio e «una mentalità terapeutica con cui essere presente al confine di contatto con il paziente (che) consente di evitare facili letture diagnostiche dell’altro» (Spagnuolo Lobb, 2011, 41).

Nel presente articolo riporto un caso di dispareunìa, trattato all’interno di un setting di coppia (cfr. Spagnuolo Lobb, 2008, 2011), il cui lavoro è stato orientato dai princìpi/guida gestaltici nella lettura del sintomo:
– attenzione al significato relazionale del sintomo;
– inquadramento del disturbo all’interno del momento esistenziale evolutivo della persona;

  • lettura del dinamismo figura/sfondo (ogni epifenomeno sottende una polarità complementare);
  • concezione estetica e processuale del fenomeno;
  • attenzione al campo situazionale all’interno del quale ogni accadere si manifesta. 


Inoltre, in questo specifico lavoro terapeutico ho proposto il Training Autogeno che, applicato con coerenza all’epistemologia e al metodo gestaltico, consente un’immediatezza di accesso all’esperienza corporea, o meglio all’esperienza del corpo-in-relazione (Borino, 2013, pp. 118-119).
Dal punto di vista dell’intervento terapeutico, l’obiettivo è stato sempre il medesimo, pur al variare delle circostanze e della forma che il disturbo assume, e cioè: ripristinare la spontaneità organismica al confine di contatto con l’ambiente (cfr. Spagnuolo Lobb, 2011).

 

Training Autogeno: co-creare il confine

Il senso di complicità e sicurezza reciproca che i partner sperimentano quando lavorano uno di fianco all’altra, non riescono a sentirlo nei momenti di intimità ritenuti “pericolosi”: rimangono polarizzati su “quanto siamo diversi”. Mi chiedo come posso facilitare in questa coppia l’integrazione tra desiderio e possibilità. Premessa alla possibilità di tentare il “salto nel vuoto relazionale” di cui parla Spagnuolo Lobb (cfr. 2011, cap. 7) è quel che c’è nel campo situazionale: il loro piacere per la dimensione salutista applicata al corpo la condivisione di competenze e abilità in relazione al fitness, loro territorio comune.

Penso all’opportunità di proporre il Training Autogeno (TA), che utilizzato in ottica gestaltica assume la valenza di un medium facilitatore del contatto e della consapevolezza corporea (cfr. Borino, 2013).  «Dato che entrambi siete consapevoli di vivere con un elevato livello di stress, che si ripercuote sui vostri momenti di intimità e lavorate con il corpo in palestra, ho pensato che potrebbe essere utile dedicare uno spazio della terapia all’apprendimento del TA. Si tratta di un metodo tra i più diffusi, anche in campo sportivo. Si basa sul principio per cui esiste un legame tra distensione muscolare e distensione psicologica» (e continuo a esporre i princìpi base del TA).

Serena e Bruno sembrano sinceramente interessati e incuriositi.

Dopo aver ricevuto il loro assenso, e aver spiegato i passaggi fondamentali di ciò che avverrà, li invito a posizionarsi comodamente sulle poltrone e inizio con l’induzione dello stato di calma per poi passare al primo esercizio: la pesantezza.

Dopo la fase della ripresa, li invito a scambiarsi le loro impressioni sull’esperienza appena vissuta. Serena: «Sono passata da una fase in cui ero agitata per la stranezza della situazione, a una in cui mi sono progressivamente rilassata. A un certo punto mi sembrava di galleggiare e ho sentito un formicolio al braccio destro». Bruno: «Io ho avuto difficoltà, non riuscivo a lasciarmi andare all’esercizio. Però la respirazione profonda e il ritmo della voce/guida mi hanno come ipnotizzato. No, non ho sentito pesantezza né formicolio alle braccia, però mi sono rilassato».

Si ritrovano uniti nel desiderio di apprendere la tecnica e nelle sedute successive insegno loro gli esercizi del ciclo inferiore del metodo di Schultz (1993). Sin dalla volta successiva, noto che qualcosa è accaduto. Riportano che hanno fatto gli esercizi in coppia, alternandosi alla guida delle formule.  Bruno (ha un viso più disteso del solito): «È stata una piacevole sorpresa. È la prima volta che tu segui quello che io ti dico senza ribattere e senza dirmi che ti do fastidio!» (ride, giocando sul doppio senso).  Serena: «Ed è la prima volta che non ti arrabbi e che rispetti i miei tempi senza fare l’offeso o la vittima» (ride).

Aggiungo: «È come se aveste scoperto un nuovo gioco che potete fare insieme».  Accolgono con entusiasmo la metafora del gioco che sembra coinvolgerli ed eccitarli sul doppio registro del prendersi cura di sé e del partner e del giocare a esplorare una dimensione nuova del loro stare assieme corporeo. Uno degli obiettivi fondamentali della psicoterapia della Gestalt nel lavoro con le coppie è ripristinare la capacità ludica come modalità di contatto fuori dai soliti schemi delle reciproche, drammatiche aspettative. «(…) il salto illogico del gioco, il lasciare momentaneamente irrisolto il problema per fare altro (…) ridendo perché così si guarda al futuro che può iniziare adesso» (Spagnuolo Lobb, 2011, p. 173).

Chiedo: «Ci sono margini di miglioramento nel vostro modo di eseguire insieme il TA?».

(…)

Articolo tratto da Quaderni di Gestalt, volume XXVII, 2014-1, I vissuti sessuali in psicoterapia
Rivista semestrale di Psicoterapia della Gestalt, edita da FrancoAngeli, pag. 74

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afferrare l'altro

Afferrare l’altro. Intervista a Vittorio Gallese

– Pietro A. Cavaleri

Vedere l’altro è attivare la via visiva, ma guardare vuol dire “afferrare l’altro”, mettersi in un rapporto di apertura nei confronti dell’altro. Vediamo non solo con la vista, ma anche con il tatto, con l’udito, con l’azione. L’isomorfismo non è la riproduzione di una struttura, ma è “l’afferramento” di un corpo che si emoziona. L’emozione si è evoluta come uno strumento di negoziazione interpersonale. Emozionarsi non è solo sentirsi, ma sentire nell’esprimersi. Occorre guardare all’uomo partendo non dal cervello, ma dalla persona. L’identità è un processo di co-costruzione in cui l’altro gioca un ruolo fondamentale. Se l’altro manca, sono mutilate le potenzialità di individuazione di ognuno.

Pietro A. Cavaleri. Ti porrò delle domande a partire dal lavoro che abbiamo visto fare a Margherita, per arrivare poi al tuo ambito più specifico. La prima domanda prende spunto dal fatto che l’interazione tra terapeuta e paziente, così come si è svolta, è stata incentrata sull’esperienza percettiva: “guardami, mi vedi?” “come senti il tuo corpo?”. Forse non è un caso che la psicoterapia della Gestalt abbia nella psicologia della Gestalt una delle sue radici più importanti. A questo proposito, vorrei chiederti: cosa ne pensi dell’articolo di Eagle e Wakefield, che sottolinea la connessione tra isomorfismo e simulazione incarnata, facendo riferimento diretto ai tuoi lavori?

Vittorio Gallese. Prendo spunto dalla seduta. Bisognerebbe introdurre subito una distinzione tra vedere e guardare. Vedere significa, certo, attivare le vie visive nel nostro cervello, ma guardare è qualcosa di diverso. Guardare vuol dire “afferrare l’altro”, volerlo “afferrare”. Ammesso, e non concesso, che il vedere possa essere considerato come la funzione tipica ed esclusiva del sistema visivo, in realtà credo che non lo sia. Si dà per scontato che si sente con il tatto, si vede con la vista e si ascolta con l’udito. Già oggi noi siamo in grado di dire che questa è un’affermazione del tutto parziale, è incompleta.

In realtà vediamo e sentiamo con la vista, con il tatto, con l’udito e con l’azione. Il vedere non è solo un impressionare la retina dalla luce riflessa dall’oggetto che abbiamo di fronte. Non è solo questo, ma è un mettersi in un rapporto di apertura nei confronti dell’altro e quindi c’è sempre questa componente in qualche modo di “afferramento” nello sguardo che vuole guardare l’altro. Significa mettere in campo le mie emozioni che sono in qualche modo attivate dalla visione, che vuole in qualche modo “afferrare” e di cui io sono parte attiva. Questo non significa che io decida “a tavolino”: adesso ti guardo, invece di vederti soltanto; ma dipende da come io sto nella relazione. Nella seduta abbiamo visto come in vari momenti questo vedere era solo un vedere e in certi momenti diventava anche un guardare, che era quello che tu in qualche modo cercavi (riferendosi a Margherita).

Talvolta, invece, quando guardiamo l’altro, possiamo cercare nell’altro un riflesso di noi, per rispondere a degli interrogativi in cui l’altro è in qualche modo rilevante, se lo è, solo nella misura in cui ci dà un riflesso che ci aiuta o a sentirci meglio, o a riporre sicurezza, o a darci un senso ulteriore di autoaffermazione. Rimanendo su un piano puramente neurofisiologico, vedere è qualcosa di molto complesso, molto più complesso della mera attivazione delle cosiddette “aree visive” nel nostro cervello. Se parliamo di estetica, l’estetica non si risolve studiando il cosiddetto cervello visivo, ma deve “vedere” molto di più, che è un po’quello che cerchiamo, che studiamo nella visione: il motorio, il cuore, il tatto. Il senso del tatto, cioè osservare il contatto esperito dall’altro, non è semplicemente l’impressione della retina e via via l’attivazione del mio sistema visivo, perché qualcuno ci ha detto che ci sono delle aree nel nostro cervello che rispondono ai volti e altre che rispondono alle case o ai ponti.

Il problema per me è capire perché ci sono delle aree che rispondono ai volti, che cosa le fa rispondere ai volti e non ai ponti? Non lo sappiamo, la cosa grave è che a molti sembra non interessare rispondere a questa domanda. Finché non riusciamo a rispondere a queste domande, le neuroscienze diventano un po’ un’esibizione dei muscoli tecnologici che però secondo me, non ci fanno fare grandi passi avanti. Per fare passi avanti bisogna partire dalla “dimensione personale”. In fondo se si parla di simulazione incarnata è proprio per questo: voglio incarnare la visione, voglio incarnare il senso del tatto nella dimensione in cui si capiscono. Si possono capire solo se li incastoniamo in questa dimensione, mentre invece tra molti colleghi c’è una grandissima vocazione frenologica, tesa a trovare nel cervello una casa ai cosiddetti “moduli cognitivi”. Infatti, non è un caso che il libro di Fodor, La modularità della mente, abbia avuto un’influenza enorme nel condizionare poi le scienze cognitive.

Pietro A. Cavaleri: Come dire che non basta soltanto l’esperienza percettiva, ma occorre l’esperienza percettiva col significato che la mente le dà?

Vittorio Gallese: Sì, però il significato della mente in questo caso è a monte del linguaggio, anzi il linguaggio è una spia di qualche cosa che lo suscita.

(…)

Articolo tratto da Quaderni di Gestalt, volume XXIV, 2011-2, Psicoterapia della Gestalt e Neuroscienze
Rivista semestrale di psicoterapia della Gestalt edita da FrancoAngeli, pag. 26

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vissuti sessuali

Psicopatologia in psicoterapia della Gestalt: fenomenologia ed estetica del contatto

– I Quaderni di Gestalt si raccontano: 2014 -2 

L’interesse per la psicopatologia, che da qualche anno attraversa la riflessione teorica e metodologica del nostro Istituto, prende le mosse dal bisogno degli psicoterapeuti della Gestalt di guardare alle nuove evidenze cliniche con una mappa gestaltica che sia in linea con gli sviluppi delle ricerche e degli studi più attuali. Questa riflessione ha prodotto alcuni volumi originali, come pure articoli e capitoli, tradotti in inglese e in varie lingue, che hanno nutrito la comunità gestaltica internazionale, desiderosa di avere strumenti di lettura e intervento sulle nuove sofferenze relazionali coerenti con l’anima gestaltica.

Sono nati così i training internazionali Gestalt Therapy Approach to Psychopathology and Contemporary Disturbances, svolti in Italia e condotti in lingua inglese (a cui si è aggiunta un’edizione in lingua spagnola), che, arrivati ormai alla loro terza edizione, continuano ad attrarre colleghi da tutto il mondo. A testimoniare l’interesse di psicoterapeuti non solo gestaltici per questo modello di psicopatologia e pratica clinica è la partecipazione al Master in Psicopatologia Gestaltica e Fenomenologica, in lingua italiana, da parte di colleghi di diversi orientamenti.

Questo numero dei Quaderni di Gestalt è stato dedicato al tema della psicopatologia gestaltica per supportare, attraverso il dialogo e approfondimenti specifici, la riedizione di concetti basilari in linea con l’evoluzione culturale e clinica. Fare sentire la voce gestaltica, con tutta la sua originalità e profondità, nel mondo della psicopatologia è un’avventura appassionante, come ormai diversi convegni organizzati dall’Istituto hanno dimostrato.

Il modello di psicopatologia gestaltica si collega fondamentalmente a due matrici contemporanee molto stimolanti: la svolta relazionale che da qualche anno ormai sta attraversando il mondo dell’infant research, della psicoanalisi e delle neuroscienze e la fenomenologia psichiatrica.

La scoperta dei neuroni specchio e i suoi risvolti clinici (Gallese, 2007), la rilettura delle relazioni primarie operata dall’infant research, la teoria di Daniel Stern (2010), in particolare il suo sviluppo ultimo circa le forme dinamiche dell’esperienza vitale, la svolta relazionale operata in psicoanalisi da Stephen Mitchell, l’accento posto sulla alterità da Donna Orange, rieditano concetti per noi familiari: il processo più che il contenuto, le forme percettive, la dinamica figura-sfondo, il sostegno all’intenzionalità, il lasciarsi orientare dall’estetica del contatto. Questi concetti ci portano a cogliere la sofferenza che accade al confine di contatto in termini di sostegno all’intenzionalità e di adattamento creativo.

La fenomenologia psichiatrica e la neofenomenologia ci portano ad apprezzare il sentire del terapeuta, oltre che del paziente, collocandolo in un campo fenomenologico in cui la sua presenza, seppur situazionata e contestuale, è determinante nella diagnosi e nella terapia.

Queste due correnti di ricerca ci sostengono nel guardare alla psicopatologia gestaltica come ad una sofferenza del confine, del “tra”, alla psicodiagnosi come ad uno sguardo situazionato sull’attualizzarsi di una sofferenza che è sempre relazionale, alla psicoterapia come ad un’occasione per riconoscere la bellezza che ogni sofferenza cela, con il suo sacrificare una propria spontaneità per risolvere situazioni difficili. Da questo sfondo emerge uno sguardo originale sulla sofferenza che trascende la psicopatologia classica, sia psicodinamica che fenomenologica: l’evento clinico diventa espressione di un campo co-creato che il terapeuta coglie allo stato nascente attraverso la propria competenza estetica e modula attraverso la propria presenza.

Il presente numero raccoglie alcune testimonianze originali del modello di psicopatologia del nostro Istituto.

Quaderni di Gestalt, volume XXVII, 2014-2, La psicopatologia in psicoterapia della Gestalt
Rivista semestrale di psicoterapia della Gestalt, edita da FrancoAngeli

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Dalla solitudine alla condivisione della sofferenza nel mondo del lavoro

-E. Conte, M. Mione e P. Fontana.

Le Autrici presentano l’esperienza di un gruppo di auto-aiuto sul tema della solitudine e della condivisione nel mondo del lavoro, nato in un’azienda, tramite un’intervista ad una lavoratrice dell’azienda stessa. Dopo una introduzione che evidenzia l’importanza socio-politica dell’essere gruppo e la presentazione dell’intervista vengono proposte delle riflessioni conclusive nelle quali viene riletta l’esperienza della solitudine secondo l’ottica della psicoterapia della Gestalt, sottolineando l’importanza del gruppo di auto-aiuto come laboratorio di costruzione di ground e di competenze relazionali “rivoluzionarie” per la società attuale.

La psicologia e la psicoterapia partecipano a pieno titolo alla costruzione di un pensiero e di una prassi in rapporto alla “pòlis”, alla costruzione della comunità e della cittadinanza. La psicoterapia della Gestalt, in particolare, è da sempre interessata ad offrire il suo contributo alle modalità del convivere nella pòlis (Goodman, 1967; Polster, 2006; Francesetti 2011), alla qualità di quell’incessante scambio relazionale che avviene tra l’organismo umano e il suo ambiente, tra gli individui e le loro comunità, tra il cittadino e la pòlis.

La psicoterapia della Gestalt si impegna a favore della qualità delle relazioni e, nel fare questo, promuove lo sviluppo di quelle capacità critiche e di condivisione che costituiscono i presupposti necessari per la creazione di un tessuto sociale, per un senso di identità collettiva, in cui le singole soggettività abitino a pieno diritto. Tutto ciò si riassume nel concetto gestaltico di adattamento creativo alla solitudine, che esprime la possibilità di integrazione tra «la creatività, che esprime l’unicità, e l’adattamento che esprime la reciprocità (…), tra la necessità di adeguarsi alle esigenze della società e il bisogno di sviluppo differenziato e creativo che è insito in ogni individuo» (Spagnuolo Lobb, Salonia e Sichera, 2001, p. 186).

Coniugare l’esperienza dell’individualità con quella della socialità favorisce la produzione e la trasformazione di senso, e quindi la creazione di nuovi mondi possibili, di nuovi modelli di vita (Mione, Conte, 2004). L’essere gruppo è uno spazio-tempo particolarmente significativo nel quale questo processo può attuarsi, spazio-tempo all’interno del quale è possibile radicarsi in nuove appartenenze, aprirsi alla creatività, alla diversità, alla conflittualità, costruire narrazioni che si traducano in sistemi di rappresentazione comune. Per questi motivi, l’essere gruppo in qualsiasi ambito (sociale, ricreativo, terapeutico, ecc.) appare oggi una cerniera preziosa tra l’individuo e il macro sistema, un “ganglio” che connette il tessuto vivo della società attuale, tessuto che è sottoposto a continue lacerazioni e dal quale i più “svantaggiati” rischiano di essere espulsi.

L’esperienza che raccontiamo in questo articolo testimonia quanto appena affermato. Essa è stata presentata nella terza edizione del festival dei Matti di Venezia, nel 2011, da  Paola Fontana (protagonista della nostra intervista) e Tiziana Crostelli (impiegata, assieme a Fontana, dell’azienda Agile – ex-Eutelia – di Pregnana Milanese), da Corrado Mandreoli (responsabile delle politiche sociali della Camera del Lavoro di Milano) e da Massimo Cirri (psicologo presso la Camera del Lavoro di Milano e conduttore del programma radiofonico “Caterpillar”). Ci sembra che la loro esperienza di formazione di un gruppo di auto-aiuto in azienda meriti di essere raccontata, per la qualità innovativa che caratterizza il modo con cui si sono occupati di relazioni nel mondo aziendale, dando sostegno al singolo lavoratore e soprattutto contribuendo a creare un nuovo concetto di lavoro e di comunità.

Maria Mione ed Elisabetta Conte intervistano Paola Fontana

Puoi descrivere in breve quale è stata l’evoluzione di questa esperienza, ricostruendone la storia, dall’occupazione dell’azienda alla costituzione del gruppo di auto-aiuto?

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Articolo tratto da Quaderni di Gestalt, volume XXV, 2012/1, La psicoterapia della Gestalt per i gruppi
Rivista semestrale di Psicoterapia della Gestalt edita da FrancoAngeli,  pag. 12

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