empatia

Empatia incarnata tra psicoterapia della Gestalt e neuroscienze

– Valeria Rubino.

In accordo con il nuovo trend culturale che sancisce nell’uomo il primato della dimensione relazionale, l’articolo si propone di approfondire alcune riflessioni teoriche sul concetto di empatia sia in seno alla psicoterapia della Gestalt che in ambito neuroscientifico. Obiettivo del presente lavoro è individuare spunti di condivisione tra i risultati ottenuti dall’Infant Research, le neuroscienze ed alcuni elementi teorici ed epistemologici della psicoterapia della Gestalt.

(…)

Empatia e neuroscienze

Molti degli spunti teorici ed epistemologici caratteristici della psicoterapia della Gestalt, dalla tradizionale teoria del contatto al nuovo modo di concepire l’empatia, trovano un concreto riscontro nelle ultime e straordinarie scoperte raggiunte in ambito neuroscientifico. Nell’ultimo decennio, infatti, si sono compiuti ragguardevoli progressi nell’individuare i substrati neurali alla base dell’intersoggettività e dell’empatia.

 I neuroni specchio

Alcune importanti ricerche, compiute in ambito neurobiologico, hanno rivelato la presenza nel cervello di un gruppo particolare di neuroni, chiamati “neuroni specchio”, la cui caratteristica sarebbe quella di eccitarsi sia quando un soggetto compie una determinata azione, sia quando è un altro a compierla innanzi ai suoi occhi (Rizzolatti, 2006). Secondo alcuni scienziati, questa scoperta potrebbe spiegare il fenomeno dell’empatia rivelandone una presunta base biologica.

Le strutture neuronali coinvolte, infatti, quando noi proviamo determinate sensazioni ed emozioni sembrano essere le stesse che si attivano quando attribuiamo a qualcun altro quelle “stesse” sensazioni ed emozioni. La scoperta dei neuroni specchio è da attribuirsi ad un gruppo di ricercatori italiani che, attraverso studi elettrofisiologici condotti sul cervello del macaco, hanno individuato una classe di neuroni, situati nella porzione ventrale dell’area F5 della corteccia premotoria, e nella regione posteriore del lobo parietale (Gallese et al., 1996, 2002; Fogassi et al., 2005).

La peculiarità di questo gruppo di neuroni riguarda il loro attivarsi non solo quando la scimmia esegue azioni motorie finalizzate al raggiungimento di uno specifico scopo, ma anche quando altre scimmie eseguono azioni simili. Studi successivi hanno dimostrato che, oltre ad una funzione strettamente motoria, una particolare classe di neuroni specchio possiede anche funzioni audiovisive, attivandosi non solo durante l’esecuzione e l’osservazione delle azioni, ma anche di fronte al suono da esse prodotto.

Le straordinarie potenzialità di tali scoperte hanno indotto i neuroscenziati a ricercare anche nell’uomo l’esistenza di un sistema di neuroni specchio, ed i risultati di molteplici studi neurofisiologici e di neuroimaging funzionale, convergono nell’aver individuato anche nell’uomo un sistema mirror localizzato in regioni parieto-premotorie, verosimilmente omologhe a quelle descritte nella scimmia (Rizzolatti, Fogassi, Gallese, 2001; Gallese, Keysers, Rizzolatti, 2004).

La mole di informazioni che nel corso degli anni si sono accumulate sui neuroni specchio, hanno permesso di considerare questo meccanismo non come un semplice sistema finalizzato all’imitazione, ma come la base neurale di una forma diretta di comprensione dell’azione altrui.

Quanto fin qui esposto ci permette di postulare l’esistenza di un substrato neurale preposto a comprendere le azioni compiute dall’altro, una base neurofisiologica della comprensione empatica.

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Articolo tratto da Quaderni di Gestalt, volume XXIV, 2011-2, Psicoterapia della Gestalt e Neuroscienze
Rivista semestrale di psicoterapia della Gestalt edita da FrancoAngeli, pag. 26.

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trauma

Crescite difficili. La Gestalt incontra il trauma

– Anna Fabbrini.

L’articolo affronta il tema del trauma relazionale. Prende in esame la relazione di cura basata sul potere e i suoi effetti distruttivi sulla crescita cognitiva ed emotiva della persona, privata del riconoscimento identitario. Gli strumenti della psicoterapia della Gestalt si sono rivelati efficaci per generare nuove matrici di dipendenza fiduciosa in grado di riparare il danno.

Introduco con le parole di una mia paziente che mi hanno ispirato il titolo:

Quando qualcuno mi chiede …
dico che ho avuto una vita difficile … Tanto per dire qualcosa.
Nessuno potrebbe comprendere
il terrore in cui sono cresciuta …

Ho scelto di parlare delle crescite difficili per portare una testimonianza del mio lavoro clinico di questi anni con persone che hanno subìto dei traumi in età infantile. Nel condividere queste mie riflessioni, mi propongo anche di fare qualche collegamento tra la teoria evolutiva di riferimento e la pratica clinica gestaltica. E questa è anche un’occasione per meditare su uno dei mali del nostro tempo, non certo nuovo, un male antico che oggi prende grande visibilità. Mi riferisco alla violenza morale e fisica verso i piccoli che è molto più presente di quello che pensiamo e che sentiamo così sconcertante quando arriva a diventare fatto di cronaca. Sullo sfondo, meditiamo anche su un altro male del nostro tempo: la pressione sociale alla felicità e la rimozione del dolore.

E dedico questo intervento a tutte quelle persone che sono stati bambini cresciuti nella solitudine e nel terrore.

Il trauma

Un trauma – dice Winnicott (1996) – «è una frattura nella continuità dell’esistenza dell’individuo (…) ed è solo grazie al senso di continuità dell’esistenza che può realizzarsi, nella persona, il senso di sé, del sentirsi reali e dell’esistere» (p. 13). Questa frattura d’esistenza può essere causata da un evento puntuale, come un incidente o una perdita improvvisa e produce, in questo caso, quel complesso sintomatico conosciuto come Sindrome da Stress Post Traumatico (DPTS).

In questa sede, però, farò riferimento a un altro tipo di trauma, quello che deriva dalla inadeguatezza del sistema delle cure primarie, quando cioè l’ambiente familiare è privo dei requisiti idonei all’accoglimento e alla protezione dei figli, al loro accudimento e alla trasmissione del sapere relazionale e culturale. In questo caso parliamo di crescita traumatica o Disturbo Post Traumatico da Stress Complesso (DPTSc) che è di natura relazionale.

A questo punto della stesura del mio testo, cercavo qualche esempio per darvi un’idea del tipo di problemi di cui parlo e mi sono venuti in mente volti e storie di adulti che ho incontrato.

Ho pensato a Maria, nata non voluta da una madre intellettuale che si sentiva rovinata dalla maternità, che per tutta la vita ha rimpianto una carriera fallita causata – a suo dire – dalla presenza dei figli. Affidata alla nonna fino all’età di quattro anni, per tutta la sua vita si è sentita ripetere: «Io i figli non li volevo… era meglio se non nascevi».

Ho pensato a Lucia, anch’essa allontanata da casa, figlia di una coppia simbiotica che la sentiva minaccia dell’intimità coniugale. Come conforto alle sue incertezze adolescenziali riceveva dalla madre frasi come: «Bisogna che tu accetti la verità… sei brutta. Non potrai piacere mai a nessuno… nessuno ti vorrà».

Ho pensato a Renata, abusata dal padre che le diceva col fiato sul collo: «Questo non è mai successo. Se lo dici ti ammazzo»… mentre nella stanza a fianco la mamma – maniaca dell’ordine e della pulizia – passa l’aspirapolvere per non sentire il rumore… (…)

E ho pensato ad altri ancora. Storie diverse, ma con un aspetto in comune: l’uso malvagio e perverso del potere dell’adulto sul bambino. Per affrontare un tema di questa complessità ci sono tante direzioni possibili. Io ho scelto di seguire il filo di una riflessione concentrandomi sulla deviazione della naturale disparità tra genitore e figlio quando, invece di esprimersi come cura, prende la direzione dell’assoggettamento, della manipolazione.

(…)

L’articolo approfondisce i seguenti temi:

  • la crescita sana
  • la crescita traumatica
  • limen
  • linee dell’azione terapeutica

 

Articolo tratto da Quaderni di Gestalt, volume XXVII, 2014-2, La psicopatologia in psicoterapia della Gestalt
Rivista semestrale di psicoterapia della Gestalt, edita da FrancoAngeli, pag. 81

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training autogeno

Training Autogeno come strumento di contatto: un caso di dispareunia

– Giuseppe Sampognaro

Viene descritto il lavoro di coppia su un caso di dispareunia. Decisiva, in senso terapeutico, è stata l’applicazione del Training Autogeno, un metodo che – utilizzato in ottica gestaltica – facilita il contatto sia tra emozioni e sensazioni corporee, sia tra chi chiede e offre sostegno.

Una domanda che spesso mi viene rivolta è: «Ti occupi anche di terapia sessuale?».  Sono d’accordo con Nancy Amendt-Lyon quando afferma: «Non pratico la terapia sessuale come un metodo separato dalla terapia della Gestalt. Così come per tutti gli altri problemi relazionali, mi occupo di quelli sessuali nel loro contesto, con la convinzione che la sessualità passa attraverso pressoché ogni difficoltà o gioia che emerge in terapia» (2013, p. 587).  La psicoterapia della Gestalt è un modello olistico che propone un approccio trasversale a ogni situazione di disagio e «una mentalità terapeutica con cui essere presente al confine di contatto con il paziente (che) consente di evitare facili letture diagnostiche dell’altro» (Spagnuolo Lobb, 2011, 41).

Nel presente articolo riporto un caso di dispareunìa, trattato all’interno di un setting di coppia (cfr. Spagnuolo Lobb, 2008, 2011), il cui lavoro è stato orientato dai princìpi/guida gestaltici nella lettura del sintomo:
– attenzione al significato relazionale del sintomo;
– inquadramento del disturbo all’interno del momento esistenziale evolutivo della persona;

  • lettura del dinamismo figura/sfondo (ogni epifenomeno sottende una polarità complementare);
  • concezione estetica e processuale del fenomeno;
  • attenzione al campo situazionale all’interno del quale ogni accadere si manifesta. 


Inoltre, in questo specifico lavoro terapeutico ho proposto il Training Autogeno che, applicato con coerenza all’epistemologia e al metodo gestaltico, consente un’immediatezza di accesso all’esperienza corporea, o meglio all’esperienza del corpo-in-relazione (Borino, 2013, pp. 118-119).
Dal punto di vista dell’intervento terapeutico, l’obiettivo è stato sempre il medesimo, pur al variare delle circostanze e della forma che il disturbo assume, e cioè: ripristinare la spontaneità organismica al confine di contatto con l’ambiente (cfr. Spagnuolo Lobb, 2011).

 

Training Autogeno: co-creare il confine

Il senso di complicità e sicurezza reciproca che i partner sperimentano quando lavorano uno di fianco all’altra, non riescono a sentirlo nei momenti di intimità ritenuti “pericolosi”: rimangono polarizzati su “quanto siamo diversi”. Mi chiedo come posso facilitare in questa coppia l’integrazione tra desiderio e possibilità. Premessa alla possibilità di tentare il “salto nel vuoto relazionale” di cui parla Spagnuolo Lobb (cfr. 2011, cap. 7) è quel che c’è nel campo situazionale: il loro piacere per la dimensione salutista applicata al corpo la condivisione di competenze e abilità in relazione al fitness, loro territorio comune.

Penso all’opportunità di proporre il Training Autogeno (TA), che utilizzato in ottica gestaltica assume la valenza di un medium facilitatore del contatto e della consapevolezza corporea (cfr. Borino, 2013).  «Dato che entrambi siete consapevoli di vivere con un elevato livello di stress, che si ripercuote sui vostri momenti di intimità e lavorate con il corpo in palestra, ho pensato che potrebbe essere utile dedicare uno spazio della terapia all’apprendimento del TA. Si tratta di un metodo tra i più diffusi, anche in campo sportivo. Si basa sul principio per cui esiste un legame tra distensione muscolare e distensione psicologica» (e continuo a esporre i princìpi base del TA).

Serena e Bruno sembrano sinceramente interessati e incuriositi.

Dopo aver ricevuto il loro assenso, e aver spiegato i passaggi fondamentali di ciò che avverrà, li invito a posizionarsi comodamente sulle poltrone e inizio con l’induzione dello stato di calma per poi passare al primo esercizio: la pesantezza.

Dopo la fase della ripresa, li invito a scambiarsi le loro impressioni sull’esperienza appena vissuta. Serena: «Sono passata da una fase in cui ero agitata per la stranezza della situazione, a una in cui mi sono progressivamente rilassata. A un certo punto mi sembrava di galleggiare e ho sentito un formicolio al braccio destro». Bruno: «Io ho avuto difficoltà, non riuscivo a lasciarmi andare all’esercizio. Però la respirazione profonda e il ritmo della voce/guida mi hanno come ipnotizzato. No, non ho sentito pesantezza né formicolio alle braccia, però mi sono rilassato».

Si ritrovano uniti nel desiderio di apprendere la tecnica e nelle sedute successive insegno loro gli esercizi del ciclo inferiore del metodo di Schultz (1993). Sin dalla volta successiva, noto che qualcosa è accaduto. Riportano che hanno fatto gli esercizi in coppia, alternandosi alla guida delle formule.  Bruno (ha un viso più disteso del solito): «È stata una piacevole sorpresa. È la prima volta che tu segui quello che io ti dico senza ribattere e senza dirmi che ti do fastidio!» (ride, giocando sul doppio senso).  Serena: «Ed è la prima volta che non ti arrabbi e che rispetti i miei tempi senza fare l’offeso o la vittima» (ride).

Aggiungo: «È come se aveste scoperto un nuovo gioco che potete fare insieme».  Accolgono con entusiasmo la metafora del gioco che sembra coinvolgerli ed eccitarli sul doppio registro del prendersi cura di sé e del partner e del giocare a esplorare una dimensione nuova del loro stare assieme corporeo. Uno degli obiettivi fondamentali della psicoterapia della Gestalt nel lavoro con le coppie è ripristinare la capacità ludica come modalità di contatto fuori dai soliti schemi delle reciproche, drammatiche aspettative. «(…) il salto illogico del gioco, il lasciare momentaneamente irrisolto il problema per fare altro (…) ridendo perché così si guarda al futuro che può iniziare adesso» (Spagnuolo Lobb, 2011, p. 173).

Chiedo: «Ci sono margini di miglioramento nel vostro modo di eseguire insieme il TA?».

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Articolo tratto da Quaderni di Gestalt, volume XXVII, 2014-1, I vissuti sessuali in psicoterapia
Rivista semestrale di Psicoterapia della Gestalt, edita da FrancoAngeli, pag. 74

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afferrare l'altro

Afferrare l’altro. Intervista a Vittorio Gallese

– Pietro A. Cavaleri

Vedere l’altro è attivare la via visiva, ma guardare vuol dire “afferrare l’altro”, mettersi in un rapporto di apertura nei confronti dell’altro. Vediamo non solo con la vista, ma anche con il tatto, con l’udito, con l’azione. L’isomorfismo non è la riproduzione di una struttura, ma è “l’afferramento” di un corpo che si emoziona. L’emozione si è evoluta come uno strumento di negoziazione interpersonale. Emozionarsi non è solo sentirsi, ma sentire nell’esprimersi. Occorre guardare all’uomo partendo non dal cervello, ma dalla persona. L’identità è un processo di co-costruzione in cui l’altro gioca un ruolo fondamentale. Se l’altro manca, sono mutilate le potenzialità di individuazione di ognuno.

Pietro A. Cavaleri. Ti porrò delle domande a partire dal lavoro che abbiamo visto fare a Margherita, per arrivare poi al tuo ambito più specifico. La prima domanda prende spunto dal fatto che l’interazione tra terapeuta e paziente, così come si è svolta, è stata incentrata sull’esperienza percettiva: “guardami, mi vedi?” “come senti il tuo corpo?”. Forse non è un caso che la psicoterapia della Gestalt abbia nella psicologia della Gestalt una delle sue radici più importanti. A questo proposito, vorrei chiederti: cosa ne pensi dell’articolo di Eagle e Wakefield, che sottolinea la connessione tra isomorfismo e simulazione incarnata, facendo riferimento diretto ai tuoi lavori?

Vittorio Gallese. Prendo spunto dalla seduta. Bisognerebbe introdurre subito una distinzione tra vedere e guardare. Vedere significa, certo, attivare le vie visive nel nostro cervello, ma guardare è qualcosa di diverso. Guardare vuol dire “afferrare l’altro”, volerlo “afferrare”. Ammesso, e non concesso, che il vedere possa essere considerato come la funzione tipica ed esclusiva del sistema visivo, in realtà credo che non lo sia. Si dà per scontato che si sente con il tatto, si vede con la vista e si ascolta con l’udito. Già oggi noi siamo in grado di dire che questa è un’affermazione del tutto parziale, è incompleta.

In realtà vediamo e sentiamo con la vista, con il tatto, con l’udito e con l’azione. Il vedere non è solo un impressionare la retina dalla luce riflessa dall’oggetto che abbiamo di fronte. Non è solo questo, ma è un mettersi in un rapporto di apertura nei confronti dell’altro e quindi c’è sempre questa componente in qualche modo di “afferramento” nello sguardo che vuole guardare l’altro. Significa mettere in campo le mie emozioni che sono in qualche modo attivate dalla visione, che vuole in qualche modo “afferrare” e di cui io sono parte attiva. Questo non significa che io decida “a tavolino”: adesso ti guardo, invece di vederti soltanto; ma dipende da come io sto nella relazione. Nella seduta abbiamo visto come in vari momenti questo vedere era solo un vedere e in certi momenti diventava anche un guardare, che era quello che tu in qualche modo cercavi (riferendosi a Margherita).

Talvolta, invece, quando guardiamo l’altro, possiamo cercare nell’altro un riflesso di noi, per rispondere a degli interrogativi in cui l’altro è in qualche modo rilevante, se lo è, solo nella misura in cui ci dà un riflesso che ci aiuta o a sentirci meglio, o a riporre sicurezza, o a darci un senso ulteriore di autoaffermazione. Rimanendo su un piano puramente neurofisiologico, vedere è qualcosa di molto complesso, molto più complesso della mera attivazione delle cosiddette “aree visive” nel nostro cervello. Se parliamo di estetica, l’estetica non si risolve studiando il cosiddetto cervello visivo, ma deve “vedere” molto di più, che è un po’quello che cerchiamo, che studiamo nella visione: il motorio, il cuore, il tatto. Il senso del tatto, cioè osservare il contatto esperito dall’altro, non è semplicemente l’impressione della retina e via via l’attivazione del mio sistema visivo, perché qualcuno ci ha detto che ci sono delle aree nel nostro cervello che rispondono ai volti e altre che rispondono alle case o ai ponti.

Il problema per me è capire perché ci sono delle aree che rispondono ai volti, che cosa le fa rispondere ai volti e non ai ponti? Non lo sappiamo, la cosa grave è che a molti sembra non interessare rispondere a questa domanda. Finché non riusciamo a rispondere a queste domande, le neuroscienze diventano un po’ un’esibizione dei muscoli tecnologici che però secondo me, non ci fanno fare grandi passi avanti. Per fare passi avanti bisogna partire dalla “dimensione personale”. In fondo se si parla di simulazione incarnata è proprio per questo: voglio incarnare la visione, voglio incarnare il senso del tatto nella dimensione in cui si capiscono. Si possono capire solo se li incastoniamo in questa dimensione, mentre invece tra molti colleghi c’è una grandissima vocazione frenologica, tesa a trovare nel cervello una casa ai cosiddetti “moduli cognitivi”. Infatti, non è un caso che il libro di Fodor, La modularità della mente, abbia avuto un’influenza enorme nel condizionare poi le scienze cognitive.

Pietro A. Cavaleri: Come dire che non basta soltanto l’esperienza percettiva, ma occorre l’esperienza percettiva col significato che la mente le dà?

Vittorio Gallese: Sì, però il significato della mente in questo caso è a monte del linguaggio, anzi il linguaggio è una spia di qualche cosa che lo suscita.

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Articolo tratto da Quaderni di Gestalt, volume XXIV, 2011-2, Psicoterapia della Gestalt e Neuroscienze
Rivista semestrale di psicoterapia della Gestalt edita da FrancoAngeli, pag. 26

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vissuti sessuali

Psicopatologia in psicoterapia della Gestalt: fenomenologia ed estetica del contatto

– I Quaderni di Gestalt si raccontano: 2014 -2 

L’interesse per la psicopatologia, che da qualche anno attraversa la riflessione teorica e metodologica del nostro Istituto, prende le mosse dal bisogno degli psicoterapeuti della Gestalt di guardare alle nuove evidenze cliniche con una mappa gestaltica che sia in linea con gli sviluppi delle ricerche e degli studi più attuali. Questa riflessione ha prodotto alcuni volumi originali, come pure articoli e capitoli, tradotti in inglese e in varie lingue, che hanno nutrito la comunità gestaltica internazionale, desiderosa di avere strumenti di lettura e intervento sulle nuove sofferenze relazionali coerenti con l’anima gestaltica.

Sono nati così i training internazionali Gestalt Therapy Approach to Psychopathology and Contemporary Disturbances, svolti in Italia e condotti in lingua inglese (a cui si è aggiunta un’edizione in lingua spagnola), che, arrivati ormai alla loro terza edizione, continuano ad attrarre colleghi da tutto il mondo. A testimoniare l’interesse di psicoterapeuti non solo gestaltici per questo modello di psicopatologia e pratica clinica è la partecipazione al Master in Psicopatologia Gestaltica e Fenomenologica, in lingua italiana, da parte di colleghi di diversi orientamenti.

Questo numero dei Quaderni di Gestalt è stato dedicato al tema della psicopatologia gestaltica per supportare, attraverso il dialogo e approfondimenti specifici, la riedizione di concetti basilari in linea con l’evoluzione culturale e clinica. Fare sentire la voce gestaltica, con tutta la sua originalità e profondità, nel mondo della psicopatologia è un’avventura appassionante, come ormai diversi convegni organizzati dall’Istituto hanno dimostrato.

Il modello di psicopatologia gestaltica si collega fondamentalmente a due matrici contemporanee molto stimolanti: la svolta relazionale che da qualche anno ormai sta attraversando il mondo dell’infant research, della psicoanalisi e delle neuroscienze e la fenomenologia psichiatrica.

La scoperta dei neuroni specchio e i suoi risvolti clinici (Gallese, 2007), la rilettura delle relazioni primarie operata dall’infant research, la teoria di Daniel Stern (2010), in particolare il suo sviluppo ultimo circa le forme dinamiche dell’esperienza vitale, la svolta relazionale operata in psicoanalisi da Stephen Mitchell, l’accento posto sulla alterità da Donna Orange, rieditano concetti per noi familiari: il processo più che il contenuto, le forme percettive, la dinamica figura-sfondo, il sostegno all’intenzionalità, il lasciarsi orientare dall’estetica del contatto. Questi concetti ci portano a cogliere la sofferenza che accade al confine di contatto in termini di sostegno all’intenzionalità e di adattamento creativo.

La fenomenologia psichiatrica e la neofenomenologia ci portano ad apprezzare il sentire del terapeuta, oltre che del paziente, collocandolo in un campo fenomenologico in cui la sua presenza, seppur situazionata e contestuale, è determinante nella diagnosi e nella terapia.

Queste due correnti di ricerca ci sostengono nel guardare alla psicopatologia gestaltica come ad una sofferenza del confine, del “tra”, alla psicodiagnosi come ad uno sguardo situazionato sull’attualizzarsi di una sofferenza che è sempre relazionale, alla psicoterapia come ad un’occasione per riconoscere la bellezza che ogni sofferenza cela, con il suo sacrificare una propria spontaneità per risolvere situazioni difficili. Da questo sfondo emerge uno sguardo originale sulla sofferenza che trascende la psicopatologia classica, sia psicodinamica che fenomenologica: l’evento clinico diventa espressione di un campo co-creato che il terapeuta coglie allo stato nascente attraverso la propria competenza estetica e modula attraverso la propria presenza.

Il presente numero raccoglie alcune testimonianze originali del modello di psicopatologia del nostro Istituto.

Quaderni di Gestalt, volume XXVII, 2014-2, La psicopatologia in psicoterapia della Gestalt
Rivista semestrale di psicoterapia della Gestalt, edita da FrancoAngeli

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Dalla solitudine alla condivisione della sofferenza nel mondo del lavoro

-E. Conte, M. Mione e P. Fontana.

Le Autrici presentano l’esperienza di un gruppo di auto-aiuto sul tema della solitudine e della condivisione nel mondo del lavoro, nato in un’azienda, tramite un’intervista ad una lavoratrice dell’azienda stessa. Dopo una introduzione che evidenzia l’importanza socio-politica dell’essere gruppo e la presentazione dell’intervista vengono proposte delle riflessioni conclusive nelle quali viene riletta l’esperienza della solitudine secondo l’ottica della psicoterapia della Gestalt, sottolineando l’importanza del gruppo di auto-aiuto come laboratorio di costruzione di ground e di competenze relazionali “rivoluzionarie” per la società attuale.

La psicologia e la psicoterapia partecipano a pieno titolo alla costruzione di un pensiero e di una prassi in rapporto alla “pòlis”, alla costruzione della comunità e della cittadinanza. La psicoterapia della Gestalt, in particolare, è da sempre interessata ad offrire il suo contributo alle modalità del convivere nella pòlis (Goodman, 1967; Polster, 2006; Francesetti 2011), alla qualità di quell’incessante scambio relazionale che avviene tra l’organismo umano e il suo ambiente, tra gli individui e le loro comunità, tra il cittadino e la pòlis.

La psicoterapia della Gestalt si impegna a favore della qualità delle relazioni e, nel fare questo, promuove lo sviluppo di quelle capacità critiche e di condivisione che costituiscono i presupposti necessari per la creazione di un tessuto sociale, per un senso di identità collettiva, in cui le singole soggettività abitino a pieno diritto. Tutto ciò si riassume nel concetto gestaltico di adattamento creativo alla solitudine, che esprime la possibilità di integrazione tra «la creatività, che esprime l’unicità, e l’adattamento che esprime la reciprocità (…), tra la necessità di adeguarsi alle esigenze della società e il bisogno di sviluppo differenziato e creativo che è insito in ogni individuo» (Spagnuolo Lobb, Salonia e Sichera, 2001, p. 186).

Coniugare l’esperienza dell’individualità con quella della socialità favorisce la produzione e la trasformazione di senso, e quindi la creazione di nuovi mondi possibili, di nuovi modelli di vita (Mione, Conte, 2004). L’essere gruppo è uno spazio-tempo particolarmente significativo nel quale questo processo può attuarsi, spazio-tempo all’interno del quale è possibile radicarsi in nuove appartenenze, aprirsi alla creatività, alla diversità, alla conflittualità, costruire narrazioni che si traducano in sistemi di rappresentazione comune. Per questi motivi, l’essere gruppo in qualsiasi ambito (sociale, ricreativo, terapeutico, ecc.) appare oggi una cerniera preziosa tra l’individuo e il macro sistema, un “ganglio” che connette il tessuto vivo della società attuale, tessuto che è sottoposto a continue lacerazioni e dal quale i più “svantaggiati” rischiano di essere espulsi.

L’esperienza che raccontiamo in questo articolo testimonia quanto appena affermato. Essa è stata presentata nella terza edizione del festival dei Matti di Venezia, nel 2011, da  Paola Fontana (protagonista della nostra intervista) e Tiziana Crostelli (impiegata, assieme a Fontana, dell’azienda Agile – ex-Eutelia – di Pregnana Milanese), da Corrado Mandreoli (responsabile delle politiche sociali della Camera del Lavoro di Milano) e da Massimo Cirri (psicologo presso la Camera del Lavoro di Milano e conduttore del programma radiofonico “Caterpillar”). Ci sembra che la loro esperienza di formazione di un gruppo di auto-aiuto in azienda meriti di essere raccontata, per la qualità innovativa che caratterizza il modo con cui si sono occupati di relazioni nel mondo aziendale, dando sostegno al singolo lavoratore e soprattutto contribuendo a creare un nuovo concetto di lavoro e di comunità.

Maria Mione ed Elisabetta Conte intervistano Paola Fontana

Puoi descrivere in breve quale è stata l’evoluzione di questa esperienza, ricostruendone la storia, dall’occupazione dell’azienda alla costituzione del gruppo di auto-aiuto?

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Articolo tratto da Quaderni di Gestalt, volume XXV, 2012/1, La psicoterapia della Gestalt per i gruppi
Rivista semestrale di Psicoterapia della Gestalt edita da FrancoAngeli,  pag. 12

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Sessualità e amore nel setting gestaltico

Dalla morte di Edipo all’emergenza nel campo situazionale,
di Margherita Spagnuolo Lobb

In questo interessante articolo, pubblicato sia in italiano che in inglese (nella prestigiosa rivista “International Journal of Psychotherapy” e nella rivista americana “Gestalt Review”), l’autrice affronta il complesso tema della sessualità e dell’amore nel setting psicoterapeutico, proponendone una lettura che permette di attraversare in termini critici alcuni concetti cardine della psicanalisi, quali il transfert e il complesso di edipo.

Già a partire dalla definizione data dall’autrice dei vissuti d’amore in psicoterapia, entriamo in un modo di vedere squisitamente gestaltico. M. Spagnuolo Lobb infatti descrive l’amore in termini estetici, come “una sorta di faro che illumina la bellezza dell’altro, una luce che ne rende visibile, nella relazione, la vitalità armonica…”. Questa chiave di lettura permette agli psicoterapeuti della Gestalt di avere uno sguardo creativo (cogliere la bellezza nel dolore è impresa complessa) ma anche una solida linea guida nello svolgere il ruolo di cura “orientando il faro del proprio amore terapeutico, affinché il paziente possa risvegliare – attraverso il guardarsi in questa luce- il senso della propria bellezza”. Il riemergere in figura di tale bellezza sarà il frutto, come dice l’autrice, di una cocreazione tra terapeuta e paziente in quello spazio fenomenologico, in quel “tra” che la psicoterapia della Gestalt chiama confine di contatto e che quest’approccio considera come uno spazio di relazione reale, e non solo quindi come un contenitore dei “fantasmi”, dei nostri primi apprendimenti relazionali.

L’autrice infatti definisce l’amore vissuto dal terapeuta e dal paziente nel processo di contatto terapeutico come un “accadimento al confine di contatto” che “risponde ad un’autoregolazione della situazione “e quindi permette l’emergere in figura delle intenzionalità di contatto incompiute, sottese dai sentimenti di attrazione tra terapeuta e paziente. Un aspetto molto innovativo proposto dall’autrice riguarda poi il collocare queste intenzionalità incompiute (che si esprimono nel setting terapeutico in forma di sentimenti di amore o di attrazione erotica), in un campo fenomenologico triadico. M. Spagnuolo Lobb parla inizialmente di ciò riferendosi allo sviluppo del bambino, la percezione del quale è rivolta sia verso il confine di contatto tra la madre e il padre sia a quelli tra sé e la madre e tra sé e il padre. L’autrice poi sposta la sua attenzione sull’applicazione del concetto di campo triadico al setting terapeutico, applicazione che favorisce l’emergere di aspetti dello sfondo dell’esperienza che allargano la percezione, e quindi il contatto, tra il paziente e il terapeuta, permettendo l’integrazione dei “vissuti di amore e sessualità…per ricostruire il ground su cui poggia la vita di relazione, il senso di sicurezza nella terra e nell’altro…” Per mostrarci ciò, l’autrice porta un esempio clinico dell’utilizzo della prospettiva triadica in un setting diadico, mostrando come il passaggio ad una logica di questo genere crei la possibilità di mobilitare il confine di contatto in termini di maggior spontaneità e fluidità.

L’autrice sottolinea inoltre come l’ermeneutica del confine di contatto ci permetta di uscire da una visione individualistica dei bisogni, che si attualizza ad esempio nel concetto del complesso di Edipo, che, secondo M. Spagnuolo Lobb, è “paradigma di una ricerca solipsistica di soddisfazione dei propri bisogni”. Il collegarsi al paradigma del confine di contatto costringe ad un radicale cambiamento di prospettiva in termini relazionali: i vissuti del bambino non sono leggibili come qualcosa che nasce solo “dentro la sua pelle” ma sono frutto di tutto il campo situazionale, campo situazionale, come già detto, è sempre un “campo fenomenologico a vertice triadico”.

Ci sembra che in questo articolo M. Spagnuolo Lobb illustri molto efficacemente la preziosità del concetto cardine della psicoterapia della Gestalt, quello di confine di contatto, inteso come un costrutto che riorganizza non solo il pensare al campo relazionale terapeutico (in particolare in quei suoi aspetti a volte di difficile gestione, quali quelli trattati in questo articolo) ma anche l’interpretazione delle dinamiche sociali. La lettura di questo testo perciò arricchisce il bagaglio di ogni terapeuta della Gestalt, grazie al suo mettere in luce così acutamente possibilità e applicazioni di questo approccio che ancora ci permette di nutrirci di nuovi interessanti sapori, ma è consigliabile anche a quanti desiderino linee guida innovative per orientarsi nella complessità del nostro tempo in trasformazione.

Maria Mione

Articolo tratto da Quaderni di Gestalt, volume XXIII, 2010 /1, Psicoterapia della Gestalt e fenomenologia
Rivista semestrale di Psicoterapia della Gestalt edita da FrancoAngeli, pag. 116

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Referenza:
Spagnuolo Lobb M. (2008). Sessualità e amore nel setting gestaltico: dalla morte di Edipo all’emergenza nel campo situazionale. Idee in Psicoterapia, 1, 1: 35-47.
Spagnuolo Lobb M. (2009). Sexuality and love in a psychotherapyeutic setting: from the death of Oedipus to the emergence of situational field. International Journal of Psychotherapy, 13: 1, 5-16.

Seminario con Erving Poster

Ogni vita merita un romanzo. La psicoterapia nel fluire della vita. Video Seminario con Erving Poster.

Durante un seminario a Palermo, 7 e 8 giugno 2011, il professore Erving Polster, decano internazionale della psicoterapia della Gestalt, ha presentato, ad una platea attenta e curiosa, il proprio modello teorico-clinico in cui ciò che accade nel qui ed ora dell’incontro tra terapeuta e paziente viene considerato un evento narrativo generatore di cambiamento e crescita. Partendo dall’originale prospettiva della psicoterapia come un luogo e uno spazio che rende possibile il risvegliarsi dell’interesse per “l’altro” e per la vita sia nel paziente che nel terapeuta, l’incontro si è sviluppato lungo il percorso della story telling, della sequenza terapeutica, degli aspetti sociali della psicoterapia e dei gruppi spontanei come luogo di terapia.

Il seminario si è svolto in quattro sessioni, ciascuna di mezza giornata, in cui Polster ha presentato un aspetto teorico che ha poi preso forma nella conduzione di alcune sedute dal vivo. Una di queste sedute è stata in co-conduzione con la professoressa Margherita Spagnuolo Lobb. Ascoltare e vedere al lavoro questo grande maestro della psicoterapia della Gestalt, ha significato incontrare lo sguardo di Erving, una sorta di faro amoroso che risveglia e conduce la persona che ha di fronte verso l’interesse per il gioco della vita.

Durante le lezioni magistrali, il professor Polster ha evidenziato tre strade che nel percorso terapeutico conducono alla possibilità dell’espressione piena del sé:

  • da persona a persona;
  • da momento a momento;
  • da evento a evento.

Polster considera il contatto fra persona e persona come uno dei fattori fondamentali di sviluppo, crescita e maturazione dell’individuo, il punto d’incontro tra noi e l’ambiente. La propensione ad un atteggiamento di fiducia ed autentico interesse nel vedere una persona è il sostegno all’intenzionalità di contatto insita in ogni azione individuale, ciò che rende possibile sperimentare il senso di frammentazione e di conflitto nonché la possibilità di superarli per giungere ad un vissuto di integrazione e pienezza.  (…)

Erving ci ha ricordato che il compito del terapeuta è di riconoscere quando il contatto è pieno, intenzionale, ispirato e direzionato. La concentrazione, il fascino e la curiosità sono tre qualità che favoriscono la relazione tra terapeuta e paziente, lo stare presenti al confine di contatto, aperti alla novità di cui l’altro è portatore. Quando il terapeuta è aperto a queste tre qualità abbiamo un’esperienza nuova della relazione e non la ripetizione di schemi relazionali antichi e non più funzionali. (…)

Durante una seduta Erving, con un’intuizione geniale, è riuscito a portare l’altro in una dimensione indicibile: “Se tu diventi felice, i tuoi genitori diventeranno buoni genitori e tu andrai avanti. Tutti noi dobbiamo andare oltre i nostri genitori, scoprire chi siamo”. Lo svelarsi di un’idea indicibile, ha permesso alla persona di poter realizzare e accedere ad un’idea nuova: “I miei genitori sono buoni genitori”.

Erving, sostiene che l’essere umano è un organismo complesso costituito da “sensi e comprensione”, in cui l’attenzione alla sola dimensione sensoriale costituisce un’amputazione alla complessità del fenomeno che abbiamo di fronte. Ha invitato pertanto a sostenere i pazienti alla narrazione di sé, le astrazioni, le introduzioni, i riassunti sono funzionali alla consapevolezza ed al cambiamento, come lo sono i contenuti che costituiscono il significato e il significante delle pagine del proprio “romanzo di vita”. Erving dice a Margherita: “Io non posso stare con te se non ti comprendo, se non ti conosco, non posso stare con te se non includo questi fenomeni; io sto con te e vedo il tuo sorriso, il tuo sguardo è essere con, ma io non posso stare con te se non capisco ciò che sta accadendo, e questo lo capisco ascoltando i contenuti”.

Compito del terapeuta, è possedere competenza e interesse anche verso quelle aree della vita che i pazienti vogliono tagliare fuori perché ritenute noiose e scialbe. (…)

Monica Bronzini

Articolo tratto da Quaderni di Gestalt, Rivista semestrale di Psicoterapia della Gestalt edita da Franco Angeli.

Per maggiori informazioni sul video seminario “Ogni vita merita un romanzo”con Erving Poster, clicca qui 

dialogica

Istituto di Gestalt HCC Italy per il sociale: mostra Dialogica – atemporali connessioni contemporanee

A Siracusa è iniziata la mostra di opere d’arte Dialogica che vede la partecipazione di 14 artisti da tutto il mondo. L’Istituto di Gestalt HCC Italy ha voluto sostenere l’organizzazione dell’iniziativa per l’alto valore culturale ed artistico, e per sostenere il dialogo sempre presente tra arte e psicoterapia della Gestalt.
La manifestazione vuole essere un omaggio alla vitale attualità delle opere d’arte antica ed insieme un dialogo con i maestri del passato. Opere pittoriche, progetti fotografici e video disegnano un percorso espositivo parallelo a quello della Galleria, con incursioni nel sociale e nella più vicina attualità. Gli artisti di Dialogica sono: Evita Andùiar, Romina Bassu, Giuseppe Bombaci, Davide Bramante, Riccardo Brugnone, Andrea Buglisi, Claudio Cavallaro, Simone Geraci, Francesco Lauretta, Ettore Pinelli, Giacomo Rizzo, Massimiliano Usai, Giovanni Viola, William Marc Zanghi.
La mostra sarà visitabile negli orari di apertura del Museo Galleria regionale di Palazzo Bellomo, Ortigia, Siracusa (mappa google)
In occasione della chiusura di sabato 2 Dicembre 2017, Massimiliano Usai e Roberto Vitale si esibiranno in un live di musica e poesia nel cortile di Palazzo Bellomo.
lavoro sui sogni

L’uso della concentrazione nel lavoro sui sogni

– Mercurio Albino Macaluso

Secondo gli autori di Teoria e pratica della terapia della Gestalt, il sogno è un atto creativo del sé, in cui le situazioni incompiute che tendono alla chiusura si manifestano attraverso il linguaggio pre-verbale delle immagini. Il sogno costituisce una risorsa essenziale per la terapia, in quanto via d’accesso privilegiata alla comprensione delle modalità di contatto della persona e strumento potente per favorire una migliore integrazione dell’esperienza. Oltre ai classici metodi elaborati da Frederick Perls e da Isadore From, vi è un’ulteriore modalità gestaltica di lavoro sui sogni, basata sulla tecnica della concentrazione, che troviamo menzionata nei testi fondanti della psicoterapia della Gestalt. L’articolo propone una rivalutazione di tale modalità, stranamente caduta nell’oblio.

Per la psicoterapia della Gestalt, come per la maggior parte degli approcci psicoterapeutici, il sogno racchiude un notevole potenziale di trasformazione personale e il lavoro fatto a partire dal materiale onirico può essere uno strumento terapeutico potente. L’approccio gestaltico fa ricorso direttamente all’esperienza, invece di mirare all’interpretazione dei contenuti inconsci della psiche. Il lavoro gestaltico sui sogni, pertanto, tende a utilizzare il sogno stesso come mezzo per fare un’esperienza modificatrice. In tal modo il sogno diventa un catalizzatore del processo terapeutico, che ha come fine il funzionamento integrato della personalità.

I metodi gestaltici classici di lavoro sui sogni sono fondamentalmente quello di Frederick Perls e quello di Isadore From. Secondo Perls (1968), ogni elemento del sogno è una proiezione di parti scisse del sognatore. Compito del terapeuta, è favorire la reintegrazione delle parti proiettate del sé del paziente, facendo identificare quest’ultimo con i vari elementi del sogno. In aggiunta al metodo di Perls, From (Rosenfeld, 1978) propose di considerare il sogno come una forma di retroflessione, cioè un ripetere a se stesso qualcosa che il paziente ha evitato di esprimere nell’incontro con il terapeuta. Il ricordare e il raccontare il sogno in terapia, indicano il tentativo di risolvere questa retroflessione. Nella prospettiva di From il sogno, dunque, è visto in chiave relazionale e diventa uno strumento importante per portare alla luce i disturbi del confine di contatto nella relazione tra paziente e terapeuta.

In questo breve lavoro, mi propongo di dimostrare che, oltre a queste modalità tradizionali, vi è un’ulteriore modalità gestaltica di lavoro sui sogni, indicata nei due testi fondanti della psicoterapia della Gestalt, ma poi stranamente caduta nell’oblio. In Ego, Hunger and Aggression (Perls, 1942), è descritta, in maniera succinta, ma chiara, una modalità di lavoro sui sogni che utilizza la tecnica della concentrazione. E anche in Teoria e pratica della terapia della Gestalt (Perls et al., 1951), ritroviamo un cenno fugace, ma significativo, alla possibilità di utilizzare la concentrazione nel lavoro sui sogni.

Dopo un primo periodo, tra gli anni Quaranta e Cinquanta, in cui Perls e la moglie Laura nei gruppi da loro condotti a New York lavorarono sui sogni attraverso la concentrazione, come risulta dalla testimonianza di Richard Kitzler, che riporto più avanti, nella pratica clinica gestaltica questa modalità di approccio al materiale onirico venne accantonata e finì per essere dimenticata. (…)

L’articolo affronta i seguenti temi:

1. Il sogno e il lavoro sui sogni in Teoria e pratica della terapia della Gestalt

2. Una modalità di lavoro sui sogni attraverso la concentrazione

(…)

Articolo tratto da Quaderni di Gestalt, volume XXIV,  2011 – 1, Concentrazione, emergenza e trauma
Rivista semestrale di psicoterapia della Gestalt, edita da FrancoAngeli, pag. 13.

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