Il sé e il campo in psicoterapia della Gestalt

– I Quaderni di Gestalt si raccontano: 2015 2 in breve.

Questo numero dei Quaderni di Gestalt ruota intorno ai concetti di sé e di campo, rivisitati in chiave ermeneutica. L’occasione è stata data dagli studi e dalle riflessioni compiute nel nostro Istituto in questi ultimi due anni per aggiornare e sviluppare i principi originari alla luce delle nuove teorie epigenetiche, neuroscientifiche, e dello sviluppo. La peculiarità del nostro approccio viene così messa in luce e declinata secondo i nuovi bisogni sociali e le nuove evidenze cliniche. La sfida epistemologica ed estetica, che impose agli autori del testo fondante di creare una teoria che cogliesse la spontaneità della vita (e non la devitalizzasse in nome di una rigidità teorica) si confronta oggi con le nuove condizioni sociali di desensibilizzazione corporea ed emozionale. Come deve essere oggi una teoria capace di stare con la vita e con la creatività che le è propria? che sia di aiuto reale per lo psicoterapeuta al fine di sostenere la vitalità e non la conoscenza razionale di sé del paziente? che non corra il rischio dell’egotismo, critica da cui partirono i fondatori per superare alcuni limiti della psicoanalisi del tempo?

L’incipit del numero, dunque, con la sezione Dialoghi, è un’intervista a Jean-Marie Robine, che ha recentemente curato un libro in cui un nutrito gruppo di teorici della psicoterapia della Gestalt espongono la loro idea attuale sul sé, concetto chiave per ogni modello psicoterapeutico. Maria Mione pone al collega francese domande su “Il campo e la situazione, il self e l’atto sociale essenziale”, mettendo in evidenza i concetti fondamentali che l’autore ha approfondito nei suoi scritti e le eventuali differenze con il modello del nostro Istituto. Alla fine dell’intervista, Piero Cavaleri, Gianni Francesetti e la sottoscritta espongono i loro commenti sul concetto di campo. “Credo che la prima cosa che un paziente vorrebbe trovare presso il suo terapeuta, è il riconoscimento”. Queste parole di Robine sembrano accomunare gran parte degli psicoterapeuti contemporanei (ripresi da Cavaleri nel libro di cui parleremo più avanti), così come i teorici del cambiamento e dello sviluppo e i neuroscienziati.

Nella sezione Relazioni, troviamo tre contributi sul sé. Il mio, dal titolo “Il sé come contatto. Il contatto come sé. Un contributo all’esperienza dello sfondo secondo la teoria del sé della psicoterapia della Gestalt”, rappresenta un’evoluzione dei miei studi sul sé verso la considerazione dell’esperienza dello sfondo, così importante oggi nella nostra società, in cui manca proprio la sicurezza del ground. Questa riflessione mi ha consentito di integrare nel concetto unitario del self la prospettiva evolutiva (già presentata nei Quaderni di Gestalt n. 2012-2) e un nuovo concetto di psicopatologia basato sull’esperienza dello sfondo.

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Margherita Spagnuolo Lobb 

Quaderni di Gestalt, volume XXVIII, 2015-2, Il sé e il campo in psicoterapia della Gestalt
Rivista semestrale di psicoterapia della Gestalt, edita da FrancoAngeli

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La “sindrome del cuore infranto”

-Serena Iacono Isidoro

Non sei una monade isolata, ma una parte unica e insostituibile del cosmo. Non dimenticarlo, sei un elemento essenziale nel groviglio dell’umanità.
Epitteto in Bauman (2008)

L’articolo descrive le implicazioni del postulato dell’isomorfismo e dell’indissolubile unità corpo-mente-ambiente sulla ricerca fenomenologica, in cui la teoria è concatenata all’esperienza, partendo dalla concretezza dell’esperienza corporea. Vengono presentati i risultati preliminari di una ricerca che coinvolge pazienti con cardiomiopatia di tako-tsubo (CT), una sindrome cardiaca acuta indotta dallo stress, applicando una metodologia in cui i meccanismi coinvolti nella patologia, gli elementi qualitativo-fenomenologici e quelli quan- titativi (test di Rorschach), risultano complementari.

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Cardiomiopatia di tako-tsubo (o “sindrome del cuore infranto”)

La cardiomiopatia tako-tsubo (CT) rappresenta un’entità nosologica di relativa recente descrizione, a tutt’oggi di difficile diagnosi. È caratterizzata da una transitoria disfunzione del ventricolo sinistro e da alterazioni elettrocardiografiche che possono simulare un infarto miocardico acuto (dolore toracico, dispnea, alterazioni elettrocardiografiche) (Sato et al., 1990). Il suo nome deriva dalle alterazioni cinetiche acute del ventricolo, che assume, nella variante classica, una forma simile ad una trappola per polpi (giapp. tako = polpo, tsubo = cestello) usata un tempo dai pescatori giapponesi (Sharkey et al., 2011). Tale aspetto è dovuto ad una sorta di “stordimento” delle porzioni medie e apicali del cuore con ipercinesia compensatoria dei segmenti basali (Sato et al., 1990). È preceduta da stress cronico e da stress intensi. È stato suggerito che disturbi ansioso-depressivi, il distress e l’età del soggetto possano contribuire alla fisiopatologia della CT (Nguyen et al., 2009). L’incidenza della CT nella popolazione generale è di 1:36.000, colpisce con netta prevalenza il sesso femminile (rapporto di circa 1:3), soprattutto nel periodo post-menopausale; il cuore ritorna alla sua normale attività dopo circa un mese.

In studi recenti (Denollet et al., 2013) è stato evidenziato come la personalità di Tipo D (distressed) costituisca un fattore psicosociale di rischio coronarico. Questa tipologia di personalità è data dalla combinazione di due dimensioni: affettività negativa (ansia, rabbia, ostilità) e inibizione sociale; riflette inoltre la presenza di tratti alessitimici: difficoltà nel riconoscimento degli stati emotivi propri ed altrui e nella modulazione dell’affettività (Castelli et al., 2013). In particolare, Compare et al. (2013) hanno sottolineato il ruolo chiave dell’inibizione sociale nell’aumento della reattività del sistema simpatico e cardiovascolare agli stress emozionali acuti; tale tratto risulta pregnante nei pazienti con CT suggerendo una specifica associazione: la repressione diminuisce l’espressione comportamentale, senza smorzare l’esperienza emotiva, ma incrementando la risposta fisiologica (Ulrich-Lai, Herman, 2009). (…)

Il cuore possiede un sistema nervoso intrinseco che rappresenta il “piccolo cervello del cuore” (Armour, 2007), costituito da neuroni sensoriali (afferenti), di interconnessione (circuito locale) e motori (efferenti), che comunicano con gli altri sotto l’influenza del comando neuronale centrale e delle catecolamine: le proprietà emergenti mostrate dalle sue componenti dipendono in primo luogo dalla trasduzione sensoriale dell’ambiente cardiovascolare.

L’esposizione a situazioni stressanti predispone l’organismo all’attacco o alla fuga per far fronte a situazioni potenzialmente pericolose; tuttavia, se lo stress si prolunga, si determinano effetti che comportano conseguenze negative, oltre che sul piano psicologico, anche sull’attività cardiaca e vascolare. Secondo la psicoterapia della Gestalt, il sovraccarico di stress e di tensione al confine di contatto può rendere necessaria l’attivazione di funzioni di emergenza del sé, funzioni di contatto temporanee utili a fronteggiare un grave pericolo interno e/o esterno, riducendo o esaurendo l’eccesso di tensione (Perls, Hefferline, Goodman, 1997, pp. 70-71). Esse sono di due tipi: sub-attive, che riducono la portata percettiva del pericolo attraverso una funzione prevalentemente “anestetica” dei recettori, e super-attive, che agendo sui propriocettori, incrementano la tensione al confine di contatto, per accelerare un suo più rapido esaurimento (Cascio, 2013, p. 156). L’aspetto del cuore, durante l’acuto della CT (paralisi ed ipercinesia) sembra racchiudere in sé entrambe le funzioni di emergenza: una parte è acinetica (come nel panico paralizzante) mentre l’altra smorza la sua energia attraverso la sovraeccitazione (come nella fuga).

Le qualità resilienti e gli adattamenti creativi che questa sindrome evidenzia sono lo spunto per considerare il campo relazionale in cui questa sindrome si manifesta.

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Articolo tratto da Quaderni di Gestalt, volume XXVIII, 2015-1, La psicopatologia in psicoterapia della Gestalt
Rivista Semestrale di Psicoterapia della Gestalt, edita da FrancoAngeli, pag 89

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Segni e sogni del corpo adolescente

– Anna Fabbrini

Per comprendere l’adolescente nel suo modo di essere-al-mondo, occorre partire dal corpo come campo di esperienza che coincide con la presenza stessa del soggetto. Ciò che accade nel corpo non riguarda solo i fatti fisici come tali, ma il senso che questi hanno per la persona che li esperisce, e il loro permanente rapporto con la costruzione dei significati. Vistosi e rapidi cambiamenti corporei impongono all’adolescente un confronto con dinamiche complesse relative all’autoriconoscimento, al senso di sé e alla propria identità. L’autrice espone i principali disagi e problematiche che possono emergere in questo affascinante percorso di esplorazione, consapevolezza ed integrazione di sensazioni, emozioni, pensieri, relazioni e contatto con se stessi e con gli altri.

Il corpo presenza
La nostra cultura, e la tradizione psicologica in particolare, è ancora profondamente segnata da un assunto di separazione tra mente e corpo che obbliga, ogni volta che affrontiamo il tema della corporeità, ad immaginare che ciò di cui stiamo parlando sia un oggetto (il corpo, appunto), posseduto dal soggetto-persona identificato invece con le attività ed i contenuti della mente e del pensiero. Questa idea, rafforzata dalla cultura medica, porterebbe a privilegiare uno sguardo oggettivo, analitico, anatomico e fisiologico che, nella sua pretesa di scientificità e di standardizzazione, escluderebbe ogni elemento di vissuto soggettivo e di esperienza. Se ci accontentassimo di seguire questa direzione resteremmo al di qua della comprensione possibile dei fenomeni adolescenziali (e non solo di quelli): in questa età più che in altre comprendere ciò che accade nel corpo non riguarda mai i fatti fisici come tali, ma il senso che questi hanno per la persona che li esperisce, il loro permanente rapporto con la costruzione dei significati. L’idea stessa che si possa parlare di un corpo come teatro di fatti altri da quelli della mente, ci allontana dalla possibilità di comprendere l’esperienza che l’adolescente vive col mutamento globale della sua persona, della forma e del senso: mutamento straordinario della presenza. Proprio perché la crisi ruota intorno ad un vissuto di scollamento del mondo interno da quello esterno, intorno alla tensione tra essere e apparire, tra fare e pensare, la comprensione dei fatti e, di conseguenza, l’aiuto all’adolescente non può nascere da un pensiero diviso.
Per comprendere l’adolescente nel suo modo di essere-al-mondo, occorre partire da un corpo non come “cosa” posseduta, ma come campo di esperienza che coincide con la presenza stessa del soggetto. È l’identità di corpo ed esistenza che chiamiamo presenza. L’essere-nel- mondo come presenza, sintetizza dunque l’essere biologico, l’esperienza sensoriale, la capacità di relazione e di contatto, il flusso vissuto di pensieri, sentimenti ed emozioni e la consapevolezza integrata di tutto questo. La presenza così definita, in quanto coincide con l’esperienza, non può che costituirsi come processo, cioè continua costruzione e decostruzione dei dati, succedersi di equilibri e squilibri.
La presenza non è uno stato raggiunto una volta per tutte, ma una dinamica che si radica nella coscienza stessa del corpo e che richiede la capacità di costruire il senso della propria continuità attraverso i cambiamenti. Tale capacità orienta il comportamento e permette di dare risposta ai bisogni che via via emergono.
Questa prospettiva elimina ogni mito di armonia e di benessere raggiungibile una volta per tutte ed implica una capacità di ascolto e di rispetto, sia dei ritmi biologici profondi che si manifestano attraverso le sensazioni, sia dei dati esterni dell’ambiente.
La presenza è segnata dall’oscillazione e dall’andamento ciclico dei diversi stati: alternanza di contatto e ritiro, di apertura e chiusura, di parola e di silenzio. Il malessere ed il disagio nascono quando questo processo viene bloccato, quando viene interrotto il contatto con i messaggi dell’interno e/o dell’esterno. L’incapacità a procedere, a decidere, a scegliere, manifesta il blocco: i sintomi ne sono l’espressione.
Ciò che di solito viene definito disagio evolutivo corrisponde in realtà alla difficoltà soggettiva di accettare il fluire del processo, per l’enorme intensità dei mutamenti interni e dei cambiamenti qualitativi nelle funzioni di contatto, nella definizione e consapevolezza di sé e del mondo esterno. La vera novità degli eventi adolescenziali che riguardano il corpo non è data soltanto dalla particolare intensità e velocità dei mutamenti, come di solito si tende a sottolineare, ma dal fatto già richiamato che l’adolescente è per la prima volta spettatore consapevole del mutamento che lo riguarda ed è dunque impegnato in un processo di controllo, contenimento, attribuzione di senso a ciò che gli accade. Contemporaneamente impara ad utilizzare le nuove risorse che si rendono disponibili.
Resta vero tuttavia che questi cambiamenti, vistosamente percepibili all’esterno, interessano anche alcuni spettatori privilegiati (genitori, fratelli, altri adulti significativi). Anche questi ultimi sono coinvolti emotivamente nell’operazione di accogliere il cambiamento, di attribuirvi senso, mantenendo la possibilità di riconoscere l’adolescente e se stessi nella trasformazione.
Va perciò compresa a fondo la tensione che si viene a creare nel campo relazionale e sociale, proprio a partire dalle modificazioni del corpo e in particolare della sessualità. Questa tensione è data dal fatto che adulto e ragazzo stanno insieme rinegoziando un senso comune da attribuire alle loro rispettive presenze ed alla relazione che li lega. La salvaguardia della diversità, la differenza e la specificità dei ruoli, l’indipendenza e la libertà personale di autodefinirsi, coabitano con la necessità di mantenere il legame affettivo che sostiene l’autoriconoscimento e il senso di permanenza e di continuità.
Articolo tratto da Quaderni di Gestalt, volume XXVI, 2013/1, L’emergere dell’esperienza somatica nel campo fenomenologico
Rivista semestrale di psicoterapia della Gestalt edita da FrancoAngeli, pag. 91
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La spontaneità dell’incontro terapeutico

– di Mercurio Albino Macaluso

Facendo riferimento alla teoria del sé presentata da Perls, Hefferline e Goodman in Gestalt Therapy (1951), questo lavoro esamina il concetto gestaltico di spontaneità e le sue implicazioni cliniche. La spontaneità è la qualità propria del buon contatto, dell’esperienza piena. Quando è pienamente presente nel qui e ora dell’incontro con l’altro, il terapeuta è nella condizione migliore per cogliere ciò che si presenta al confine di contatto e per rispondere ad esso in modo spontaneo. Così intesa, la spontaneità del terapeuta, che non è mai disgiunta della responsabilità che il ruolo di cura implica, diventa strumento fondamentale di terapia.

I recenti sviluppi della psicoterapia della Gestalt, a partire dagli anni No- vanta, hanno dato maggiore enfasi agli aspetti relazionali del nostro approccio, già presenti in nuce in Gestalt Therapy (Perls, Hefferline e Goodman, 1951). Secondo Spagnuolo Lobb (2011), nell’attuale contesto socio-culturale, contraddistinto dalla carenza di relazioni intime e dall’incapacità di contenere l’eccitazione dell’incontro con l’altro, compito fondamentale della psicoterapia diventa «dare strumenti di sostegno relazionale orizzontale, che possano far sentire le persone riconosciute dallo sguardo dell’altro paritario» (p. 29). In tale prospettiva, la cura non consiste tanto nel fornire al paziente un sostegno all’espressione dei suoi bisogni inibiti, quanto nel fornirgli un’esperienza di incontro, che gli consenta di ripristinare la spontaneità del sé. La stessa consapevolezza, concetto centrale in psicoterapia della Gestalt, che indica l’essere centrati sul momento presente, è intesa nella situazione terapeutica in termini relazionali. Scrive Spagnuolo Lobb (2011, pp. 45-46): «L’essere nel presente (…) è un essere nella realtà della situazione (sia del paziente che del terapeuta), nella realtà delle loro finitudini umane, ed è dallo stare in questa finitudine condivisa che ambedue si dirigono verso lo scopo terapeutico. Il processo di contatto-ritiro dal contatto è sperimentato per se stesso, allo scopo di trovare in questa relazione percezioni alternative che rendano possibile una spontaneità di contatto, un’integrità del proprio essere-con». Ciò richiede allo psicoterapeuta della Gestalt di essere disposto a lasciarsi coinvolgere emotivamente nella relazione terapeutica e di essere capace di rispondere all’altro in modo personale e spontaneo. Se in una prospettiva centrata sull’individuo lo strumento terapeutico fondamentale è la concentrazione, nella nuova prospettiva relazionale strumento fondamentale diventa la spontaneità del terapeuta. Oggi lo psicoterapeuta della Gestalt è chiamato a favorire la spontaneità del paziente attraverso la propria capacità di essere spontaneo e autentico. Nel suo lavoro la spontaneità costituisce fine e mezzo nello stesso tempo.

In quest’ottica, dunque, acquista centralità il concetto di spontaneità, che Margherita Spagnuolo Lobb definisce, in linea con la lezione di Perls, Hefferline e Goodman (1997), come «la qualità che accompagna l’essere pienamente presenti al confine di contatto, con la consapevolezza di sé, nel pieno uso dei propri sensi» (Spagnuolo Lobb, 2011, p. 84). Così intesa, la spontaneità diventa un requisito specifico dello psicoterapeuta della Gestalt.

In questo lavoro proverò ad affrontare alcune questioni relative alla spontaneità e alla sua funzione terapeutica in un’ottica gestaltica. In cosa consiste la spontaneità e quali sono le sue caratteristiche? Che valore terapeutico ha? Come si apprende la spontaneità dello stare in relazione? Come si concilia la spontaneità con la specifica responsabilità che il ruolo terapeutico comporta? Si tratta di questioni complesse e aperte. Questo lavoro vuole essere un contributo alla riflessione su di esse.

In ultimo, presenterò un esercizio di concentrazione sul confine di contatto, che ha lo scopo di favorire lo sviluppo della capacità di focalizzare l’attenzione su ciò che accade momento per momento nell’interazione con il paziente e di rispondere ad esso in maniera spontanea.

L’articolo affronta i seguenti temi:

1. Concentrazione, consapevolezza e spontaneità ne l’Io, la fame, l’aggressività

2. Il sé spontaneo in Gestalt Therapy

3. La spontaneità dell’incontro terapeutico

4. Spontaneità, competenza e responsabilità

5.Le principali modalità del sé nella situazione terapeutica

6. Un esercizio di concentrazione sul confine di contatto

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Quaderni di Gestalt, volume XXVIII, 2015-2, Il sé e il campo in psicoterapia della Gestalt
Rivista semestrale di psicoterapia della Gestalt, edita da FrancoAngeli 

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Convegno di studi 
Condotte impulsive, antisociali, psicopatiche e assessment psicologico

Il sé e il campo in psicoterapia della Gestalt

– I Quaderni di Gestalt si raccontano: 2015/1 in breve.

“Davanti alla grandiosità del terapeuta, il paziente o l’allievo non possono far altro che crogiolarsi.”
Gary Yontef

La scelta di pubblicare un secondo volume sulla psicopatologia nasce dal desiderio di trasmettere ai nostri lettori l’ampio patrimonio di studi, ricerche e strumenti didattici sulla clinica gestaltica, orientata da una prospettiva di campo, a cui l’Istituto di Gestalt HCC Italy ha contribuito in maniera significativa ormai da un decennio (il primo libro sugli attacchi di panico a cura di Gianni Francesetti è del 2005!). La frase in epigrafe segna il fil rouge che unisce lo spirito di questi studi e degli articoli di questo numero: la reciprocità e relazionalità dell’incontro terapeutico. Scommettendosi nella mutevolezza e nel rischio del campo fenomenologico condiviso, il terapeuta declina nel qui e ora dell’incontro terapeutico l’umiltà dell’essere-con.

In questo numero troviamo quattro Relazioni, tutti contributi nuovi, che tracciano il confine in evoluzione dei nostri studi. L’articolo di Miriam Taylor “Uno sfondo sicuro: utilizzo dell’approccio sensomotorio nel trauma” chiarisce in modo inequivocabile il tipo di trattamento necessario per il DPTS, sottolineando come esso debba essere diverso dal classico intervento gestaltico basato sulla teoria paradossale del cambiamento di Beisser, e come debba invece prendere in considerazione la strutturazione neurologica degli schemi percettivi traumatici. Il libro dell’autrice su questo argomento, Trauma Therapy and Clinical Practice. (…)

Segue un contributo di Margherita Spagnuolo Lobb e di Valeria Rubino su “Le esperienze dissociative in psicoterapia della Gestalt”: partendo dalle descrizioni del DSM 5, la autrici presentano casi clinici focalizzando la peculiarità di un intervento gestaltico che nasca dall’evoluzione della teoria paradossale del cambiamento.

Antonio Narzisi e Rosy Muccio seguono con un contributo che integra recenti ricerche sull’autismo con la prospettiva gestaltica, “Autismo e psicoterapia della Gestalt: un ponte dialogico possibile”. La sintomatologia autistica può essere ascritta alla mancanza di modulazione sensoriale e alla difficoltà di pianificazione motoria. In un’ottica esperienziale, il terapeuta della Gestalt si chiede come il bambino autistico usi la propria visione, come senta il corpo, come gestisca il proprio equilibrio. Considerando la co-creazione del contatto tra bambino autistico e caregiver, l’intervento deve sostenere l’intenzionalità di entrambi affinché si raggiungano con una adeguata competenza sull’altro.

Giancarlo Pintus in “Processi neurobiologici e competenza al contatto nell’esperienza addictive” affronta l’esperienza di dipendenza presentando i processi neurobiologici che la sostengono, e iscrivendola nel quadro di riferimento delle esperienze traumatiche. Inoltre sottolinea l’importanza di tenere in considerazione in terapia l’attaccamento e il riconoscimento relazionale.

Per la Gestalt in Azione, una seduta gestaltica condotta durante un seminario per studenti universitari viene commentata da uno psicoanalista e da un gestaltista. “L’arte del prendersi cura: il modello della psicoterapia della Gestalt in dialogo. Simulata di una seduta dal vivo” è il titolo di questo lavoro clinico curato da Teresa Borino, che ospita i contributi di Adriano Schimmenti e di Pietro A. Cavaleri, per una seduta condotta da Margherita Spagnuolo Lobb.

Nella sezione Studi e Modelli Applicativi, curata da Aluette Merenda, Serena Iacono Isidoro con “La ‘sindrome del cuore infranto’: un’indagine preliminare sull’isomorfismo psicofisico” sintetizza la sua tesi di specializzazione: si tratta di un primo studio sul rapporto isomorfico tra stress nel contatto con l’ambiente e stress cardiaco, che prende in esame gli stili percettivi di pazienti con sindrome cardiaca acuta indotta dallo stress, chiamata di “tako-tsubo”.

Nella stessa sezione, Jan Roubal e Tomas Rihacek presentano “I vissuti del terapeuta con i pazienti depressi”, uno studio sui sentimenti di attunement e di distanziamento dei terapeuti di pazienti affetti da depressione. Lo studio apre ad una comprensione dell’autoregolazione di questa relazione e dei benefici della sintonizzazione affettiva nella cura.

Per la sezione Storia e Identità, Bernd Bocian ha scelto l’articolo di Gary Yontef “L’atteggiamento relazionale nella teoria e nella pratica della terapia della Gestalt”, pubblicato nel 1998, da cui ha avuto origine uno sviluppo del nostro modello in linea con l’anima relazionale del testo di Perls, Hefferline e Goodman, Gestalt Therapy, a cui il nostro Istituto ha partecipato attivamente sin dall’inizio, grazie agli insegnamenti di Isadore From, con contributi consi- derati basilari nella letteratura internazionale1.

Nella sezione Congressi Silvia Tinaglia, Serena Iacono Isidoro e Milena Dell’Aquila ci raccontano il convegno su “Fenomenologia delle relazioni intime e della violenza”, che il 20 febbraio 2015 ha inaugurato il master universitario omonimo istituito dall’Università Cattolica del Sacro Cuore di Milano e organizzato a Palermo dall’Istituto di Gestalt HCC Italy.

Sebastiano Messina ci racconta inoltre il tradizionale convegno che il nostro Istituto organizza a Siracusa in occasione delle recite classiche al Teatro Greco, che quest’anno ha affrontato il tema “Flussi migratori tra clinica e società. Metamorfosi culturale, conflitto e bisogno di radicamento”.

Infine, nel grande fermento letterario che in questi anni attraversa la psicoterapia della Gestalt, sia italiana che estera, Dan Bloom e Gianni Francesetti hanno scelto di recensire due libri: Gestalt Therapy di Wheeler e Axelsson (2014) e Le nuove arti terapie. Percorsi nella relazione d’aiuto di Acocella e Rossi. La prima recensione è a firma di Jean-Marie Robine, la seconda di Michele Cannavò.

Nel consegnarvi questo nuovo numero dei Quaderni di Gestalt, sentiamo l’orgoglio di una fatica produttiva e l’attesa di un dialogo inesausto con i nostri lettori.

Margherita Spagnuolo Lobb

Quaderni di Gestalt, volume XXVIII, 2015-1, Il sé e il campo in psicoterapia della Gestalt
Rivista Semestrale di Psicoterapia della Gestalt, edita da FrancoAngeli

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La femminilità come emergere del sé al confine di contatto

– di Roberta La Rosa

Attraverso il racconto di due casi clinici, l’articolo presenta il lavoro terapeutico con le sofferenze in cui è impossibile avere un rapporto sessuale completo. Partendo dal principio che la sessualità è la trama di fondo del nostro desiderio di contattare l’altro, si è voluto evidenziare come, seguendo l’intenzionalità delle pazienti, la co-creazione tra terapeuta e paziente sia il luogo in cui è possibile sperimentare nuovi schemi relazionali. L’approccio gestaltico ha orientato il lavoro terapeutico con queste sofferenze focalizzando alcuni punti chiave come il radicamento nel corpo, i temi dell’energia e dei confini e il sostegno alla femminilità.

L’idea di scrivere sul tema della sessualità femminile è nata dalla psicoterapia di due donne arrivate nel mio studio con lo stesso sintomo: l’assenza di rapporti sessuali completi con il loro partner. La formazione in psicoterapia della Gestalt mi orienta a guardare la sessualità come desiderio di contattare l’altro, che si dispiega già a partire dal campo relazionale primario. È con questo sfondo che descriverò in breve la storia delle due donne, i temi e alcuni momenti salienti dell’intervento terapeutico.

Mara: 37 anni, primogenita di tre figli, è impiegata presso un’azienda. L’atmosfera nella famiglia d’origine è descritta come calda ma carica di tensione: racconta di conflitti con il padre, con la madre il rapporto è più sereno ma Mara si sente caricata delle sue ansie e guardata con gli occhi di chi vuole incoraggiarla senza la reale convinzione che lei possa farcela. La madre media i conflitti con il padre, chiedendole di essere comprensiva con lui. Ha un buon rapporto con il fratello, nato quando lei era adolescente e verso il quale si è sentita protettiva. Il rapporto con la sorella è stato caratterizzato dal confronto: per i genitori è quella meno critica, accomodante, da prendere ad esempio. L’energia di Mara è vissuta dai familiari come negativa perché porta le discussioni fino in fondo e vuole avere sempre ragione. Si sente la figlia non riuscita. È cattolica praticante e ha creduto nel valore della verginità, scegliendo di rinunciare a rapporti prematrimoniali. Si è sposata quindici anni fa, dopo un lungo fidanzamento, durante il quale lei e il compagno avevano cominciato ad avere un’intimità; Mara si sentiva coinvolta ed eccitata, e allo stesso tempo spaventata per quelle forti sensazioni in contrasto con i suoi valori religiosi.

Arriva in terapia perché, nonostante il desiderio, ha paura della penetrazione. Si squalifica per questo disagio stupido e incomprensibile ma, al contempo, drammaticamente incomunicabile. Nelle prime settimane di terapia il motivo della sua richiesta di aiuto, subito verbalizzato, rimane sullo sfondo. Solo dopo qualche mese, la questione della sessualità diventa la figura attorno cui ruota la sua sofferenza. Racconta del suo sentirsi in colpa per non riuscire ad avere rapporti con il marito, nonostante lui sia molto comprensivo: questo se da un lato la protegge dall’affrontare più seriamente il problema, dall’altro la fa sentire inetta ed incapace. Sul tema cominciano ad emergere anche le sue curiosità, i suoi non detti: “Avrei tante domande da fare alle donne che sento più grandi…vorrei essere rassicurata, vorrei chiedere cosa succede in quei momenti, se sentirò dolore e se riuscirò a sopportarlo…”.

Come scrive Amendt Lyon (2013), la dinamica figura/sfondo e il legame che la sessualità ha con il tema della vergogna permettono talvolta che le questioni sessuali retrocedano sullo sfondo, consentendo che argomenti meno minacciosi stiano in figura. Ciò in senso diacronico ha la funzione di sostenere la relazione terapeutica, e di costruire un ground di fiducia che consente al paziente di lasciarsi andare a confessioni più intime. Dalle sensazioni che provo stando di fronte a lei, ho il senso di un corpo vissuto come “sempre in allerta”, di un corpo sospeso. Mara riporta che in famiglia c’è spesso il senso di un qualcosa da cui ci si deve proteggere: un’improvvisa crisi economica, gli estranei, il mondo fuori casa pericoloso. È come se ciò si traducesse in iper-attenzione e in un allenamento costante ai segnali che arrivano dall’esterno: il nemico potrebbe arrivare, occorre prepararsi, il respiro si fa esile per aumentare la vigilanza e limitare la possibilità di essere distratti. Quando il corpo così desensibilizzato avverte sensazioni eccitanti o emozioni intense, ci si sente disorientati e impauriti, poiché queste non possono essere riconosciute come proprie.

Alcuni pazienti percepiscono l’ambiente come una forza che è pronta ad assalirli, mancando della capacità di sentirsi parte di un più vasto ambiente circostante. Nel percepire un’eccitazione sessuale, ad esempio, la vivono come il nemico che arriva da fuori: il corpo non può riconoscerla come propria, né contenerla. La poca confidenza che Mara ha con il corpo si traduce in curiosità e paura: «Ho una paura terribile delle mie parti intime, mi sembrano così delicate che ho il timore di potermi fare male anche quando mi lavo».

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Articolo tratto da Quaderni di Gestalt, volume XXVI, 2013/1, L’emergere dell’esperienza somatica nel campo fenomenologico
Rivista semestrale di psicoterapia della Gestalt edita da FrancoAngeli, pag. 91

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come ridare voce e corpo al bambino violato

Rosanna Militello intervista Marinella Malacrea (Parte II)

Marinella Malacrea, in questa intervista risponde con ampiezza ed accuratezza a precise domande su un tema delicato, complesso e drammatico, che seppur “vecchio come il mondo”, continua a sconcertare, a stimolare e ad affascinare il lavoro di ricerca e clinico, di chi si occupa di bambini violati. Il lavoro sul trauma sessuale all’infanzia, oggi in continua evoluzione, richiede la necessità di modelli terapeutici efficaci per poter rielaborare e riparare quei blocchi evolutivi e quelle pesanti cicatrici che hanno arrestato in modo dirompente la normale spontaneità che è insita nel cuore di ogni bambino.

(…)

Rosanna Militello: Quanto incide l’ambiente non accudente, non terapeutico durante il trattamento?

Marinella Malacrea: Pur non sottovalutando un’ottica preventiva, è saggio ammettere non solo che la maggior parte delle evenienze ambientali fattuali non è controllabile ed evitabile, ma che comunque parte di esse contengono anche un potenziale positivo. Occorre quindi “cavalcare la tigre”, cercando nelle varie vicende una prospettiva che le renda occasione, sia pur sofferta, di promozione personale.

A tal proposito, i concetti chiave che abbiamo individuato sono due: quello di “riattivatore traumatico” e quello di “finestra di plasticità”, che possono ben essere considerati come due facce della stessa medaglia. Il primo passo è il riconoscimento dei riattivatori traumatici: è noto che i soggetti traumatizzati nell’infanzia acquisiscono una maggiore vulnerabilità al ripetersi di evenienze analoghe a quelle che li hanno danneggiati. Tendono anche a interpretare in modo allarmato circostanze di per sé non minacciose, attraverso la costruzione permanente della convinzione di avere a che fare con un “mondo malevolo”. Tutto ciò che comporta un’alta tonalità emotiva, anche di segno positivo, e un significativo coinvolgimento relazionale può destabilizzare il soggetto dando luogo al ripristino automatico degli schemi di funzionamento post traumatico. Le piccole vittime tendono dunque a reagire con modalità post traumatiche specialmente alle esperienze che comportano intensità e prossimità dei legami, cioè circostanze in cui il soggetto traumatizzato sente aumentare la propria vulnerabilità. Sul piano operativo, quanto sopra impone l’esigenza di concepire la presa in carico come marcata dalla probabilità di ricadute, che vanno riconosciute e che richiedono la ripresa di cure intensive.

Ma si può fare di più in tutte quelle circostanze che potenzialmente re-innescano le reazioni post traumatiche, ma che possono essere considerate evenienze addirittura desiderabili? Pensiamo agli esiti giudiziari che comportano protezione e migliori prospettive future nella vita del bambino; o a nuove relazioni familiari importanti (affidamento, adozione); o a fasi di sviluppo personale fisiologici e cruciali, come la pubertà e il passaggio all’adolescenza; o alle prime prove di coinvolgimento in relazioni affettive e sessuali con pari. Come detto sopra, ogni occasione con queste caratteristiche di pregnanza può dare riattivazione. Ci viene in soccorso a questo punto l’altro concetto chiave, quello di “finestra di plasticità”.Ciò di cui può essere temuta la forza destabilizzante è anche una possibilità unica di riordino mentale. In questi momenti le strutture cerebrali ritrovano in parte la flessibilità perduta. È quindi il momento propizio: la tempestiva messa in campo di un intervento terapeutico mirato, facendo leva proprio sulla momentanea destabilizzazione e sul momentaneo innalzamento della temperatura emotiva, può essere occasione privilegiata per lavorare sulla scelta di diverse abilità di coping, per l’elaborazione di nuovi significati, per il contenimento emotivo, per il progresso nei processi di lutto, in definitiva per il raggiungimento di un assetto di funzionamento più sano.

Rosanna Militello: Secondo la mia esperienza clinica, all’interno della stanza della terapia, il bisogno di raccontare e raccontarsi del bambino violato, di buttare fuori lo sporco, di conoscere e sentire le emozioni, si chiarifica sempre di più. Attraverso l’utilizzo di modalità creative non invadenti e più vicine al linguaggio infantile diventa più facile contattare il dolore e la vergogna. Quando gli si dà la possibilità di creare, il bambino lascia emergere nuove figure, anche se lo sfondo è caratterizzato da quella confusione di cui l’abuso è assoluto portatore. Cosa ne pensa?

Marinella Malacrea: Lo scarico motorio, il non pensiero, la televisione o i videogiochi, il dormire, l’ammalarsi, perfino l’applicarsi in certe prestazioni scolastiche “meccaniche” ma impegnative per la mente, costituiscono strategie utilizzate dai bambini per rinforzare l’impulso e la tendenza a segregare ricordi e vissuti traumatici nell’angolo più inaccessibile della mente. Questo impegno nella “fuga” lascia dietro di sé una scia preoccupante di sintomi che si manifestano con disturbi del sonno, del comportamento alimentare, disturbi psicosomatici, del controllo delle funzioni fisiologiche, dell’umore, dell’apprendimento e della capacità di relazionarsi. Questo sforzo di evitamento del ricordo e dei vissuti traumatici opera da rinforzo alla filosofia di fondo improntata alla solitudine, alla disistima di sé (non posso mostrarmi a nessuno, non sono amabile) e degli altri (nessuno mi potrà capire, non posso fidarmi di nessuno), alla necessità di tenere tutto sotto controllo, al disgusto e alla vergogna, alla previsione negativa sul proprio futuro, alla demotivazione.

L’intervento psicologico con le piccole vittime si configura, sin dal primo approccio, come una vera guerra ai meccanismi di negazione, evitamento e dissociazione. A quel punto bastano a volte poche sedute (specie da quando abbiamo introdotto la tecnica EMDR) per sbloccare e far virare funzionamenti che erano sembrati per mesi, a volte davvero tanti, inamovibili. Come si sa, le favole ci insegnano che le magie finiscono a mezzanotte: quindi abbiamo imparato a non spaventarci quando, raggiunto un livello di possibilità elaborativa ideale, ricompaiono, in apparenza più virulenti che mai, i meccanismi di evitamento che ben avevamo imparato a conoscere. L’esperienza positiva fatta non va perduta: sembrano ripercorrersi i soliti sentieri della mente, ma con capacità sempre maggiori di contenimento e possibilità di elaborazione.

(…)

Articolo tratto da Quaderni di Gestalt, volume XXIV, 2011/1, Concentrazione, emergenza e trauma
Rivista semestrale di Psicoterapia della Gestalt edita da FrancoAngeli, pag. 13.

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La Relazione secondo la PdG

Noi, l’altro e l’ambiente. Gli psicoterapeuti rispondono..
La psicoterapia della Gestalt (PdG) studia il qui e ora della relazione, definito come l’accadere, il rivelarsi dell’esperienza co-creata da organismo-e-ambiente-in-contatto. In PdG la relazione è definita come l’evolversi dei contatti tra un dato “organismo-animale-umano” e una parte del suo ambiente (umano o non umano).
Il termine “contatto” implica l’interesse per l’esperienza generata dalla concretezza dei sensi, e dunque per i valori estetici e processuali della relazione. Il confine di contatto è il luogo in cui si dispiega il sé e la fenomenologia dell’incontro, con le fasi del pre-contatto, contatto, contatto pieno e post-contatto, include sfondi (acquisizioni passate) e figure (determinazioni attuali protese al futuro).
L’aggressività, in quanto forza spontanea destrutturante di sopravvivenza, sostiene l’esperienza di andare verso l’altro, e l’adattamento creativo consente all’individuo di differenziarsi dal contesto sociale, ma anche di esserne pienamente e significativamente parte.

La relazione terapeutica: l’esserci-con del terapeuta e del paziente creano un campo esperienziale in cui l’evolversi spontaneo (non ansioso) del sé al confine di contatto è possibile e l’intenzionalità insita nella richiesta di cura del paziente può attuarsi.

M. Spagnuolo Lobb e P.A. Cavaleri

Definizione tratta da GestaltPedia, l’enciclopedia della Gestalt

Congratulazioni ai nostri psicoterapeuti della Gestalt – Siracusa

Sabato 23 settembre 2017 sono stati proclamati psicoterapeuti della Gestalt presso la sede di Siracusa i dottori:

GIANMARCO LO CURZIO – Titolo della tesi “Stare con. Un modello gestaltico nelle cure palliative” – Relatore: Dott.ssa Valeria Rubino;

KAROLINA ZANETA MASLAK – Titolo della tesi “Gestalt Play Therapy come strumento di lavoro terapeutico in Oncologia Pediatrica” – Relatore: Dott. Giuseppe Sampognaro.

Che il vostro percorso professionale, ispirato dall’etica e dall’estetica gestaltica, possa sempre essere ricco di successi. Possiate portare nel mondo con creatività e spontaneità la cura verso voi stessi e l’altro.

Dallo staff dell’Istituto di Gestalt HCC Italy buona vita!

L'Intenzionalità

Chi siamo? Cosa vogliamo? Gli psicoterapeuti rispondono..

Caratteristica della coscienza che tende a qualcosa di specifico. Nell’ambito dell’approccio fenomenologico, il termine intenzionalità si riferisce ad uno degli aspetti più rilevanti della coscienza. La coscienza, infatti, esiste solo nel suo “rapportarsi a” qualcosa, nel suo “in-tendere verso” un oggetto, nel suo trascendersi. È nell’atto del “trascendimento”, che si costituisce la soggettività. È nella “trascendenza” che si trova l’elemento sostanziale della coscienza. La nozione di intenzionalità, come emerge dalla fenomenologia di Husserl, implica da una parte l’impossibilità di una “realtà in sé” e dall’altra l’esclusione di una “coscienza in sé” incapace di percepire il mondo in “se stesso”. Sul piano epistemologico, un tale modo di concepire l’intenzionalità costituisce un fondamentale punto di riferimento sia per la psicologia che per la psicopatologia. Se l’uomo si costituisce essenzialmente nel trascendersi, nell’intenzionarsi, nell’entrare in contatto con quanto lo circonda, ciò implica la necessità che la psicopatologia e la psicoterapia debbano rivolgersi all’analisi di questo continuo “trascendersi”, “intenzionarsi”, “entrare in contatto”.

Occorre soprattutto indagare “come”, con quali “forme” e in quali “modi”, l’uomo si intenziona.

È a questo nucleo centrale della ricerca che si rivolgono le psicoterapie ad orientamento fenomenologico o fenomenologico-esistenziale.

La psicoterapia della Gestalt, in particolare, pone al centro dell’intervento di cura il , che in maniera consapevole e attiva elabora significati, produce intenzioni, sussiste nel suo continuo aprirsi al mondo, tanto da costituire con esso una medesima realtà. È in questa relazione col mondo, in questo “in-tendere verso” di esso, che occorre individuare l’origine della sofferenza mentale e al contempo lo spazio della cura.

M. Spagnuolo Lobb e P. A. Cavaleri

Definizione tratta da GestaltPedia, l’enciclopedia della Gestalt!