legami

Dialogo sui legami in una società liquida

Dalla coppia alla pòlis

-Annalisa Molfese, Giuseppina Salamone

Il tema delle relazioni di coppia è stato affrontato nel 2009 durante un seminario teorico-esperenziale organizzato dall’Istituto di Gestalt HCC Italy. L’Istituto di Gestalt HCC Italy, da sempre impegnato nello scambio e nella ricerca del dialogo con chi da diversi punti di vista è interessato a temi quali le relazioni, i legami, l’intimità, la diversità e l’integrazione, si è avvalso della presenza del prof. Robert Lee di Boston, psicoterapeuta della Gestalt di fama internazionale, da anni impegnato nel lavoro con le coppie in America ed in Europa.

Il prof. Lee, docente del Gestalt Institute di Cleveland, ha presentato ad allievi ed ex allievi della scuola di Gestalt – ma anche a psicoterapeuti di diversa formazione – un modello di intervento clinico con le coppie da lui sviluppato nel corso della sua più che trentennale esperienza di lavoro psicoterapico. Tale modello offre un approccio nuovo ai problemi di coppia che non è né analitico né sistemico ma fenomenologico-relazionale (e dunque squisitamente gestaltico). Esso si basa su due concetti chiave che caratterizzano le relazioni intime: il senso di vergogna da una parte e il bisogno di appartenenza dall’altro.

La necessità di instaurare un legame intimo appartiene al desiderio di costruire un posto speciale e sicuro, la relazione appunto, dove avere la possibilità di “essere” e di essere accolti. La vergogna in tal senso viene intesa dal prof. Lee come un fenomeno relazionale che, nelle sue diverse manifestazioni (rabbia, aggressività, sarcasmo, critica etc.) e nonostante la sua funzione protettiva (che è quella di preservare dall’umiliazione dell’essere valutati negativamente dall’altro), blocca la spontaneità dell’individuo nell’incontro. La vergogna è un “tirarsi indietro” dalla relazione, dal contatto sano, e conduce perciò all’isolamento, alla non espressione del proprio essere.

Ma dove c’è la vergogna, la paura, la sensazione di non essere accolti, c’è anche una intenzionalità di contatto: il desiderio, inespresso, di vicinanza, di intimità, di raggiungere l’altro. L’acquisizione di tale consapevolezza può aiutare l’individuo e la coppia a riconoscere la propria e l’altrui vergogna in modo da poter ripristinare il sano flusso dell’esperienza dell’essere in relazione. È proprio sulla possibilità che i partner sperimentino un contatto sano con l’altro che il lavoro terapeutico si concentra: riconoscere la vergogna, il “segreto inconfessabile” che blocca il loro autentico stare insieme.

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Tratto da Quaderni di Gestalt, volume XXIII, 2009-1, L’evoluzione della psicoterapia della Gestalt in Italia
Rivista semestrale di psicoterapia della Gestalt edita da Franco Angeli

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La femminilità come emergere del sé al confine di contatto

– di Roberta La Rosa

Attraverso il racconto di due casi clinici, l’articolo presenta il lavoro terapeutico con le sofferenze in cui è impossibile avere un rapporto sessuale completo. Partendo dal principio che la sessualità è la trama di fondo del nostro desiderio di contattare l’altro, si è voluto evidenziare come, seguendo l’intenzionalità delle pazienti, la co-creazione tra terapeuta e paziente sia il luogo in cui è possibile sperimentare nuovi schemi relazionali. L’approccio gestaltico ha orientato il lavoro terapeutico con queste sofferenze focalizzando alcuni punti chiave come il radicamento nel corpo, i temi dell’energia e dei confini e il sostegno alla femminilità.

L’idea di scrivere sul tema della sessualità femminile è nata dalla psicoterapia di due donne arrivate nel mio studio con lo stesso sintomo: l’assenza di rapporti sessuali completi con il loro partner. La formazione in psicoterapia della Gestalt mi orienta a guardare la sessualità come desiderio di contattare l’altro, che si dispiega già a partire dal campo relazionale primario. È con questo sfondo che descriverò in breve la storia delle due donne, i temi e alcuni momenti salienti dell’intervento terapeutico.

Mara: 37 anni, primogenita di tre figli, è impiegata presso un’azienda. L’atmosfera nella famiglia d’origine è descritta come calda ma carica di tensione: racconta di conflitti con il padre, con la madre il rapporto è più sereno ma Mara si sente caricata delle sue ansie e guardata con gli occhi di chi vuole incoraggiarla senza la reale convinzione che lei possa farcela. La madre media i conflitti con il padre, chiedendole di essere comprensiva con lui. Ha un buon rapporto con il fratello, nato quando lei era adolescente e verso il quale si è sentita protettiva. Il rapporto con la sorella è stato caratterizzato dal confronto: per i genitori è quella meno critica, accomodante, da prendere ad esempio. L’energia di Mara è vissuta dai familiari come negativa perché porta le discussioni fino in fondo e vuole avere sempre ragione. Si sente la figlia non riuscita. È cattolica praticante e ha creduto nel valore della verginità, scegliendo di rinunciare a rapporti prematrimoniali. Si è sposata quindici anni fa, dopo un lungo fidanzamento, durante il quale lei e il compagno avevano cominciato ad avere un’intimità; Mara si sentiva coinvolta ed eccitata, e allo stesso tempo spaventata per quelle forti sensazioni in contrasto con i suoi valori religiosi.

Arriva in terapia perché, nonostante il desiderio, ha paura della penetrazione. Si squalifica per questo disagio stupido e incomprensibile ma, al contempo, drammaticamente incomunicabile. Nelle prime settimane di terapia il motivo della sua richiesta di aiuto, subito verbalizzato, rimane sullo sfondo. Solo dopo qualche mese, la questione della sessualità diventa la figura attorno cui ruota la sua sofferenza. Racconta del suo sentirsi in colpa per non riuscire ad avere rapporti con il marito, nonostante lui sia molto comprensivo: questo se da un lato la protegge dall’affrontare più seriamente il problema, dall’altro la fa sentire inetta ed incapace. Sul tema cominciano ad emergere anche le sue curiosità, i suoi non detti: “Avrei tante domande da fare alle donne che sento più grandi…vorrei essere rassicurata, vorrei chiedere cosa succede in quei momenti, se sentirò dolore e se riuscirò a sopportarlo…”.

Come scrive Amendt Lyon (2013), la dinamica figura/sfondo e il legame che la sessualità ha con il tema della vergogna permettono talvolta che le questioni sessuali retrocedano sullo sfondo, consentendo che argomenti meno minacciosi stiano in figura. Ciò in senso diacronico ha la funzione di sostenere la relazione terapeutica, e di costruire un ground di fiducia che consente al paziente di lasciarsi andare a confessioni più intime. Dalle sensazioni che provo stando di fronte a lei, ho il senso di un corpo vissuto come “sempre in allerta”, di un corpo sospeso. Mara riporta che in famiglia c’è spesso il senso di un qualcosa da cui ci si deve proteggere: un’improvvisa crisi economica, gli estranei, il mondo fuori casa pericoloso. È come se ciò si traducesse in iper-attenzione e in un allenamento costante ai segnali che arrivano dall’esterno: il nemico potrebbe arrivare, occorre prepararsi, il respiro si fa esile per aumentare la vigilanza e limitare la possibilità di essere distratti. Quando il corpo così desensibilizzato avverte sensazioni eccitanti o emozioni intense, ci si sente disorientati e impauriti, poiché queste non possono essere riconosciute come proprie.

Alcuni pazienti percepiscono l’ambiente come una forza che è pronta ad assalirli, mancando della capacità di sentirsi parte di un più vasto ambiente circostante. Nel percepire un’eccitazione sessuale, ad esempio, la vivono come il nemico che arriva da fuori: il corpo non può riconoscerla come propria, né contenerla. La poca confidenza che Mara ha con il corpo si traduce in curiosità e paura: «Ho una paura terribile delle mie parti intime, mi sembrano così delicate che ho il timore di potermi fare male anche quando mi lavo».

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Articolo tratto da Quaderni di Gestalt, volume XXVI, 2013/1, L’emergere dell’esperienza somatica nel campo fenomenologico
Rivista semestrale di psicoterapia della Gestalt edita da FrancoAngeli, pag. 91

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