La follia e l'arte dello psicoterapeuta

Intervista a Umberto Galimberti (Parte I)

Attraverso gli stimoli, di ispirazione gestaltica, di Margherita Spagnuolo Lobb e le risposte, filosoficamente vicine all’approccio junghiano, di Umberto Galimberti, questa intervista affronta temi importanti della clinica contemporanea. Dal rapporto tra il ruolo e il vissuto dello psicoterapeuta, il dialogo si intreccia con riflessioni sulla società post-moderna e sulle problematiche che vengono presentate allo psicoterapeuta nel tempo della “società cementata” (dipendenze, internet, Facebook, crisi economica). Lo psicoterapeuta, come un artista, deve imparare a conoscere sia le proprie possibilità che gli strumenti di lavoro, e deve avere un tipo particolare di fede. È di fondamentale importanza che sia consapevole della propria follìa, avendola attraversata, per riconoscere quella dell’altro, che sia consapevole dei propri dolori per vedere quelli dell’altro, che possa sentire il proprio corpo per sostenere la sensibilità dell’altro. Ed è altrettanto importante che lo psicoterapeuta si “protegga” dalla contaminazione che un’esposizione eccessiva al dolore può provocare.

Margherita Spagnuolo Lobb: Ti ringrazio per avermi concesso questa intervista, che rappresenta un’occasione importante di apprendimento e di confronto per i lettori della rivista Quaderni di Gestalt. Vorrei collegarmi a quanto hai detto ieri, nella tavola rotonda di apertura di questo convegno, riguardo alla psicoterapia come arte. Per la psicoterapia della Gestalt, i concetti di psicoterapia come arte, di estetica della relazione, di psicopatologia come adattamento creativo del paziente ad una situazione difficile, di co-creazione del confine di contatto tra paziente e terapeuta, sono fondamentali e caratterizzanti. Alcuni di questi concetti sono basilari anche per l’approccio junghiano, a te caro.
Hai precisato che la psicoterapia appartiene al mondo dell’arte, piuttosto che a quello della scienza. Oggi la psicoterapia si interroga su nuovi modi di curare il disagio psichico, modi che – al di là di codificazioni prestabilite – devono adeguarsi al sentire sociale incerto. Molti approcci, e la psicoterapia della Gestalt per prima, sottolineano i codici processuali del dialogo terapeutico, la “musica” che il terapeuta e il paziente co-creano, il modo in cui riescono a concordare i loro linguaggi, più che la comprensione dell’inconscio. Sembra che la cura non è più intesa da nessuno come mera analisi dei vissuti del paziente da parte dell’analista neutrale, ma piuttosto come un modo di entrare in contatto: sia il paziente che il terapeuta “si giocano” la propria sofferenza in una relazione “reale”. A questo punto, non essendo più schermati dalla neutralità, gli psicoterapeuti sono sfidati a fare la cosa giusta al momento giusto: a cogliere il momento chiave che consente di innestare nell’esperienza del paziente un germoglio relazionale sano, aderente alla realtà di ciò che si sente, questo potrebbe essere il nuovo must della psicoterapia, l’arte terapeutica, e anche un messaggio per le relazioni sociali in genere. La creatività, che viaggia su canoni di incertezza e di improvvisazione, potrebbe essere il codice relazionale necessario per la società di oggi. Un buon terapeuta, hai detto, deve avere un buon rapporto con la propria follia. Possiamo dire che deve avere anche un buon rapporto con la propria arte? Quali sono le caratteristiche che fanno di un terapeuta un artista e in che modo è possibile apprenderle?

Umberto Galimberti: Quando io dico arte, dico natura, la natura di una persona. Non tutte le nature sono terapeutiche. Alcune nature sono terapeutiche e questo, in linea generale, a prescindere che uno faccia o non faccia il terapeuta. C’è chi ha una vocazione accudente e chi invece proprio non c’è l’ha. Solo quelli che hanno una pre-configurazione accudente possono fare i terapeuti.
All’interno di questa premessa generale, certamente il terapeuta deve avere una relazione con la propria follia. Cosa intendiamo per follia? Per follia intendiamo quella dimensione non razionale che ci abita e che ci mette in contatto con tutto il mondo pre-razionale, che poi è tutto il mondo. Infatti, per fare un esempio, quel vaso di fiori per te significa una cosa e per me ne significa un’altra; quando comunichiamo razionalmente i loro significati privati vengono eliminati e io posso dirti “dammi quel mazzo di fiori”, prescindendo dal significato che questo mazzo di fiori ha per ciascuno di noi.
La follia la riconosciamo nel soliloquio dell’anima. Quando uno parla con se stesso, dice cose e fa associazioni che sicuramente non direbbe in pubblico, quindi è in contatto con la propria follia. Assumo per “follia” tutto ciò che non è rigorosamente comunicabile in maniera univoca, come prevede la ragione. Nel caso patologico, se ho associato quella porta alla porta dell’inferno, è chiaro che ho una titubanza ad entrare. Tutte le cose sono affiancate da queste associazioni private e queste associazioni private sono la follia. Quando Leopardi dice “dimmi che fai tu luna in ciel.”, è un’affermazione folle dal punto di vista razionale, perché si fanno interrogazioni a qualcosa che non risponde.
La follia, dicevamo, è nel soliloquio dell’anima. Nel rapporto duale gli innamorati dicono cose che sono al limite del delirio, come: “Senza di te, mi casca il mondo”. Questo non è vero dal punto di vista razionale. La razionalità, che garantisce l’univocità del linguaggio (per cui, se ti dico “televisione” tu non pensi a un totem), garantisce la prevedibilità dei comportamenti. Se io prendo quel mazzo di fiori tu non temi che te lo butti in testa, ma pensi che lo voglia donare. Questa è la ragione. Ma le cose sono disponibili con una pluralità infinita di significati, che soggiacciono nel momento razionale. Questa probabilità di significati è la follia. Tutto ciò che noi riusciamo a creare lo creiamo attingendo alla follia, perché la ragione è solo un sistema di regole da cui non nasce niente.

Il contatto con la follia deve però avvenire attraverso regole molto rigorose, perché la follia ti può trascinare in scenari da cui potresti non riprenderti più. Senza contatto con la follia, tu non puoi entrare in relazione con l’altro in termini terapeutici; d’altra parte, con un eccessivo contatto con la tua follia fai il matto. Per cui la creatività, che nasce solo dalla follia, vuole regole ferree: i creativi hanno delle discipline terribili, senza le quali sarebbero dei semplici spontaneisti.

Margherita Spagnuolo Lobb: È così che si apprende l’arte della psicoterapia?

Umberto Galimberti: Sì, attraverso il contatto con la follia. Queste cose le dice già Platone nel Simposio.

(…)

Articolo tratto da Quaderni di Gestalt, volume XXIII, 2010 /1, Psicoterapia della Gestalt e fenomenologia
Rivista semestrale di Psicoterapia della Gestalt edita da FrancoAngeli, pag. 11

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