Il trauma dell’abuso e il delicato processo della riparazione

:come ridare voce e corpo al bambino violato

-Rosanna Militello ntervista a Marinella Malacrea (Parte II)
 

Marinella Malacrea, in questa intervista risponde con ampiezza ed accuratezza a precise domande su un tema delicato, complesso e drammatico, che seppur “vecchio come il mondo”, continua a sconcertare, a stimolare e ad affascinare il lavoro di ricerca e clinico, di chi si occupa di bambini violati. Il lavoro sul trauma dell’abuso all’infanzia, oggi in continua evoluzione, richiede la necessità di modelli terapeutici efficaci per poter rielaborare e riparare quei blocchi evolutivi e quelle pesanti cicatrici che hanno arrestato in modo dirompente la normale spontaneità che è insita nel cuore di ogni bambino.

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Rosanna Militello: Nella psicoterapia della Gestalt l’incontro terapeutico viene visto come una co-creazione, una danza in cui il bambino corre il rischio di potersi esprimere mentre il terapeuta si prende il rischio di accompagnarlo in un viaggio verso terre sconosciute, aprendo spazi nuovi di immaginazione (Spagnuolo Lobb, 2007). Potrebbe descriverci le fasi del processo terapeutico che segue nel lavoro clinico con il bambino vittima di Esperienze Sfavorevoli Infantili?

Marinella Malacrea: Come già detto, la psicoterapia nell’abuso all’infanzia è finalizzata in primo luogo ad agire sul sistema di significati del soggetto, cambiando le “lenti” con cui viene letta l’esperienza, diminuendo il cortocircuito tipico dei processi post traumatici e ripristinando la capacità di integrazione, archiviazione e controllo su pensieri, ricordi, comportamenti, stati psicofisici. Fondamentale è l’idea che il trattamento è un processo, che, in modo non lineare, attraversa tuttavia fasi obbligatorie. Imprescindibile diventa la progettazione dell’intervento in ogni sua fase.

Tale progettazione sarà guidata da due considerazioni: la prima attiene alla necessità di governare il processo terapeutico garantendo sicurezza, gradualità, sintonizzazione con la piccola vittima ed evitando per quanto possibile, riattivazioni traumatiche; la seconda discenderà dalla consapevolezza che non ci si può attendere che i modelli operativi post traumatici vengano attaccati spontaneamente dal piccolo paziente. Quindi, spetta a chi cura guidare con mano ferma la rivisitazione dei processi psichici disfunzionali, portando per così dire per mano il bambino.

I presupposti del contratto terapeutico, costituiti da motivazione e stabilizzazione (controllo sufficiente della sofferenza), devono trovare un equilibrio accettabile. Il trattamento è, infatti, a rischio di “implosione” se c’è insufficiente spinta al cambiamento o al contrario di “esplosione” se pesa una eccessiva labilità e criticità personale. Si può affermare che l’attenzione a queste premesse costituisce il focus trasversale all’intero processo terapeutico. Va notata ancora la precocità con cui nel trattamento viene affrontata la necessità di “guardare da vicino” l’esperienza traumatica più grave, recuperando progressivamente, a cerchi concentrici, premesse e conseguenze, nonché esperienze traumatiche secondarie.

L’obiettivo trasversale della cura, che affonda le sue radici in un humus empatico, è collaborare attivamente a produrre “finestre di plasticità”, di cui ho parlato in precedenza. Lavorando con il bambino appare importante accordarsi sul fatto che lui stesso che è il vero protagonista, affronterà la sua sofferenza in un lavoro di “squadra” con il terapeuta.

La metafora della “squadra” si rivela densa di valore e immediatamente esplicativa. Una squadra si fonda su un libero contratto, è formata per mettere insieme le forze per vincere, è sintonizzata sul raggiungimento di un comune obiettivo, ognuno deve fare la sua parte, nella squadra non ci sono segreti. “Essere in squadra” consente fin dal primo incontro di parlarsi chiaro, di esplicitare le informazioni pregresse comunque raccolte e che a volte neppure il bambino conosce nella sua interezza, di definire gli obiettivi, di fare l’elenco dei problemi da risolvere, di chiarire i metodi che verranno adottati e molto altro: in una parola, consente di responsabilizzare il bambino nel suo percorso terapeutico. In quest’ottica di cooperazione un passaggio fondamentale è la fase della restituzione al piccolo paziente, che deve contenere, pur nel dettaglio unico e specifico del singolo individuo, alcuni “messaggi forti e chiari”.

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Articolo tratto da Quaderni di Gestalt, volume XXIV,  2011 – 1, Concentrazione, emergenza e trauma
Rivista semestrale di psicoterapia della Gestalt, edita da FrancoAngeli, pag. 13

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Segni e sogni del corpo adolescente

– Anna Fabbrini

Per comprendere l’adolescente nel suo modo di essere-al-mondo, occorre partire dal corpo come campo di esperienza che coincide con la presenza stessa del soggetto. Ciò che accade nel corpo non riguarda solo i fatti fisici come tali, ma il senso che questi hanno per la persona che li esperisce, e il loro permanente rapporto con la costruzione dei significati. Vistosi e rapidi cambiamenti corporei impongono all’adolescente un confronto con dinamiche complesse relative all’autoriconoscimento, al senso di sé e alla propria identità. L’autrice espone i principali disagi e problematiche che possono emergere in questo affascinante percorso di esplorazione, consapevolezza ed integrazione di sensazioni, emozioni, pensieri, relazioni e contatto con se stessi e con gli altri.

Il corpo presenza
La nostra cultura, e la tradizione psicologica in particolare, è ancora profondamente segnata da un assunto di separazione tra mente e corpo che obbliga, ogni volta che affrontiamo il tema della corporeità, ad immaginare che ciò di cui stiamo parlando sia un oggetto (il corpo, appunto), posseduto dal soggetto-persona identificato invece con le attività ed i contenuti della mente e del pensiero. Questa idea, rafforzata dalla cultura medica, porterebbe a privilegiare uno sguardo oggettivo, analitico, anatomico e fisiologico che, nella sua pretesa di scientificità e di standardizzazione, escluderebbe ogni elemento di vissuto soggettivo e di esperienza. Se ci accontentassimo di seguire questa direzione resteremmo al di qua della comprensione possibile dei fenomeni adolescenziali (e non solo di quelli): in questa età più che in altre comprendere ciò che accade nel corpo non riguarda mai i fatti fisici come tali, ma il senso che questi hanno per la persona che li esperisce, il loro permanente rapporto con la costruzione dei significati. L’idea stessa che si possa parlare di un corpo come teatro di fatti altri da quelli della mente, ci allontana dalla possibilità di comprendere l’esperienza che l’adolescente vive col mutamento globale della sua persona, della forma e del senso: mutamento straordinario della presenza. Proprio perché la crisi ruota intorno ad un vissuto di scollamento del mondo interno da quello esterno, intorno alla tensione tra essere e apparire, tra fare e pensare, la comprensione dei fatti e, di conseguenza, l’aiuto all’adolescente non può nascere da un pensiero diviso.
Per comprendere l’adolescente nel suo modo di essere-al-mondo, occorre partire da un corpo non come “cosa” posseduta, ma come campo di esperienza che coincide con la presenza stessa del soggetto. È l’identità di corpo ed esistenza che chiamiamo presenza. L’essere-nel- mondo come presenza, sintetizza dunque l’essere biologico, l’esperienza sensoriale, la capacità di relazione e di contatto, il flusso vissuto di pensieri, sentimenti ed emozioni e la consapevolezza integrata di tutto questo. La presenza così definita, in quanto coincide con l’esperienza, non può che costituirsi come processo, cioè continua costruzione e decostruzione dei dati, succedersi di equilibri e squilibri.
La presenza non è uno stato raggiunto una volta per tutte, ma una dinamica che si radica nella coscienza stessa del corpo e che richiede la capacità di costruire il senso della propria continuità attraverso i cambiamenti. Tale capacità orienta il comportamento e permette di dare risposta ai bisogni che via via emergono.
Questa prospettiva elimina ogni mito di armonia e di benessere raggiungibile una volta per tutte ed implica una capacità di ascolto e di rispetto, sia dei ritmi biologici profondi che si manifestano attraverso le sensazioni, sia dei dati esterni dell’ambiente.
La presenza è segnata dall’oscillazione e dall’andamento ciclico dei diversi stati: alternanza di contatto e ritiro, di apertura e chiusura, di parola e di silenzio. Il malessere ed il disagio nascono quando questo processo viene bloccato, quando viene interrotto il contatto con i messaggi dell’interno e/o dell’esterno. L’incapacità a procedere, a decidere, a scegliere, manifesta il blocco: i sintomi ne sono l’espressione.
Ciò che di solito viene definito disagio evolutivo corrisponde in realtà alla difficoltà soggettiva di accettare il fluire del processo, per l’enorme intensità dei mutamenti interni e dei cambiamenti qualitativi nelle funzioni di contatto, nella definizione e consapevolezza di sé e del mondo esterno. La vera novità degli eventi adolescenziali che riguardano il corpo non è data soltanto dalla particolare intensità e velocità dei mutamenti, come di solito si tende a sottolineare, ma dal fatto già richiamato che l’adolescente è per la prima volta spettatore consapevole del mutamento che lo riguarda ed è dunque impegnato in un processo di controllo, contenimento, attribuzione di senso a ciò che gli accade. Contemporaneamente impara ad utilizzare le nuove risorse che si rendono disponibili.
Resta vero tuttavia che questi cambiamenti, vistosamente percepibili all’esterno, interessano anche alcuni spettatori privilegiati (genitori, fratelli, altri adulti significativi). Anche questi ultimi sono coinvolti emotivamente nell’operazione di accogliere il cambiamento, di attribuirvi senso, mantenendo la possibilità di riconoscere l’adolescente e se stessi nella trasformazione.
Va perciò compresa a fondo la tensione che si viene a creare nel campo relazionale e sociale, proprio a partire dalle modificazioni del corpo e in particolare della sessualità. Questa tensione è data dal fatto che adulto e ragazzo stanno insieme rinegoziando un senso comune da attribuire alle loro rispettive presenze ed alla relazione che li lega. La salvaguardia della diversità, la differenza e la specificità dei ruoli, l’indipendenza e la libertà personale di autodefinirsi, coabitano con la necessità di mantenere il legame affettivo che sostiene l’autoriconoscimento e il senso di permanenza e di continuità.
Articolo tratto da Quaderni di Gestalt, volume XXVI, 2013/1, L’emergere dell’esperienza somatica nel campo fenomenologico
Rivista semestrale di psicoterapia della Gestalt edita da FrancoAngeli, pag. 91
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La Relazione secondo la PdG

Noi, l’altro e l’ambiente. Gli psicoterapeuti rispondono..
La psicoterapia della Gestalt (PdG) studia il qui e ora della relazione, definito come l’accadere, il rivelarsi dell’esperienza co-creata da organismo-e-ambiente-in-contatto. In PdG la relazione è definita come l’evolversi dei contatti tra un dato “organismo-animale-umano” e una parte del suo ambiente (umano o non umano).
Il termine “contatto” implica l’interesse per l’esperienza generata dalla concretezza dei sensi, e dunque per i valori estetici e processuali della relazione. Il confine di contatto è il luogo in cui si dispiega il sé e la fenomenologia dell’incontro, con le fasi del pre-contatto, contatto, contatto pieno e post-contatto, include sfondi (acquisizioni passate) e figure (determinazioni attuali protese al futuro).
L’aggressività, in quanto forza spontanea destrutturante di sopravvivenza, sostiene l’esperienza di andare verso l’altro, e l’adattamento creativo consente all’individuo di differenziarsi dal contesto sociale, ma anche di esserne pienamente e significativamente parte.

La relazione terapeutica: l’esserci-con del terapeuta e del paziente creano un campo esperienziale in cui l’evolversi spontaneo (non ansioso) del sé al confine di contatto è possibile e l’intenzionalità insita nella richiesta di cura del paziente può attuarsi.

M. Spagnuolo Lobb e P.A. Cavaleri

Definizione tratta da GestaltPedia, l’enciclopedia della Gestalt

“Human being and the processes of change – implications for Gestalt therapy and related disciplines” – Belgrado

Margherita Spagnuolo Lobb è key note speaker al convegno organizzato a Belgrado dall’Associazione Serba di Psicoterapia della Gestalt
L’associazione serba di psicoterapeuti della Gestalt organizza il suo secondo congresso internazionale a Belgrado, dal 16 al 18 settembre 2017.
Margherita Spagnuolo Lobb ha presentato la relazione magistrale di apertura del secondo giorno, dal titolo:
Gestalt Therapy in Postmodern Society: From the Need of Aggression to the Need of Rootedness

La presentazione ha esposto le esigenze cliniche della società contemporanea e gli sviluppi necessari per la psicoterapia della Gestalt.
Ha inoltre offerto un workshop, molto atteso, dal titolo: From Losses of Ego-functions to the “Dance Steps” Between a Therapist and a Client
Lo strumento clinico dei “passi di danza”, utile per l’osservazione fenomenologica ed estetica della diade terapeuta-paziente, e per la supervisione, è stato sperimentato direttamente dai partecipanti, con grande partecipazione.
Il congresso ha visto 550 terapeuti e allievi provenienti dai paesi della ex-Juogoslavia e da Malta.
Auguriamo a Lidjia Pecotic, anima instancabile e generosa di questo evento, di continuare a contribuire alla crescita della psicoterapia della Gestalt nei Balcani e a Malta.
Margherita Spagnuolo Lobb ha infine ricevuto il ringraziamento della commissione del congresso!

Il setting di gruppo, il dialogo

Dialogo tra: C. Lo Piccolo, G. Lo Castro e M. Spagnuolo Lobb (Parte I)

Gli Autori invitano tre capiscuola di modelli psicoterapici diversi – Calogero Lo Piccolo per la gruppoanalisi, Giovanni Lo Castro per lo psicodramma freudiano e Margherita Spagnuolo Lobb, per la psicoterapia della Gestalt – a rispondere ad alcune domande cruciali per la terapia di gruppo nella clinica contemporanea. I temi affrontati trasversalmente dai tre approcci riguardano la definizione del setting gruppale, la dimensione del sentire corporeo, l’estetica dell’essere gruppo, le riflessioni sul concetto di autoregolazione e sull’an-tropologia sociale che animano l’intervento di gruppo, e infine valutazioni sul futuro della psicoterapia di gruppo in considerazione delle evoluzioni sociali e culturali degli ultimi anni. Un confronto tra epistemologie e prospettive di pensiero che forniscono un’opportunità di riflessione e un’occasione per ampliare gli orizzonti di conoscenza sulla clinica dei gruppi.

  1. La prima domanda riguarda proprio la definizione di setting di gruppo. Nel vostro approccio c’è una lettura dell’esperienza del singolo nel gruppo o dell’esperienza del gruppo come un unico organismo? In che misura si considera l’uno o l’altro aspetto e a quale viene dato più rilievo in termini di modello di cura?

Calogero Lo Piccolo: La definizione più classica che viene data dagli autori, in primo luogo Foulkes, alla funzione terapeutica del gruppo secondo il modello gruppoanalitico è “terapia analitica dell’individuo attraverso il gruppo” (cfr. F. Di Maria, I. Formica, 2009). Tale espressione sta ad indicare che il focus dell’attenzione non è centrato né sul gruppo come insieme unico ed indistinto, né sull’individuo in relazione al gruppo. Il focus è contemporaneamente sulle relazioni attuali, vive e concrete tra i vari componenti del gruppo, e sulle relazionalità interne inconsce che in modo transferale vengono elicitate dall’esperienza attuale del gruppo. Il rimando continuo è quindi tra il qui ed ora dell’esperienza gruppale e il lì ed allora delle esperienze soggettive, attraverso l’attivazione dei processi di risonanza, rispecchiamento, identificazione tra i vari membri del gruppo. La lettura da parte del conduttore dei diversi momenti del processo gruppale è principalmente finalizzata a facilitare la comunicazione autentica tra i partecipanti al gruppo. Il focus terapeutico ultimo, nella mia pratica analitica, resta comunque molto centrato sulla persona.
L’esperienza del gruppo terapeutico è una straordinaria opportunità di apprendimento su se stessi e sulle proprie modalità affettive e relazionali meno visibili, un luogo in cui esplorare potenzialità soggettive inespresse e spesso a se stessi ignote, il tutto reso possibile da un campo esperienziale in cui si creano e attivano legami affettivi profondi tra i vari partecipanti.

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Articolo tratto da Quaderni di Gestalt, volume XXV, 2012/1, La psicoterapia della Gestalt con i gruppi
Rivista semestrale di Psicoterapia della Gestalt edita da FrancoAngeli, pag. 12

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La psicoterapia della Gestalt con i gruppi

In linea con una visione che amplia lo sguardo dall’individuo al campo organismo/ambiente, la psicoterapia della Gestalt afferma l’unicità e l’autonomia del processo di gruppo rispetto all’individuo.
È interessante notare come, nello stesso periodo in cui nasceva la psicoterapia della Gestalt, Bion (1952), per esempio, considerava il gruppo come un apparato psichico a sé, con una propria mentalità e una propria cultura; vedeva nello scopo di preservare il gruppo quasi una motivazione sovra-ordinata delle persone, e perfino il conflitto era per lui una tecnica che i membri adottano per preservare il gruppo (Bion, 1952, p. 63). Non possiamo non legare questo interesse degli studi psicoterapici verso i gruppi e la comunità sociale all’evoluzione di una cultura, quella occidentale, che a metà del secolo scorso voleva prendere le distanze da regimi autoritari e mentalità egoiche.
A differenza di altri studi sistemici o analitici, la psicoterapia della Gestalt si interessa del campo fenomenologico nel setting terapeutico. L’esperienza dei soggetti coinvolti è il focus del nostro studio, laddove esperienza per noi vuol dire presenza ai sensi, globalità dell’esserci in una data situazione. Se questo processo è stato considerato in psicoterapia della Gestalt per quanto riguarda l’esperienza degli individui in gruppo, non c’è stata ancora una riflessione approfondita e sufficientemente condivisa sull’ottica fenomenologica del processo di gruppo.
Questo numero dei Quaderni di Gestalt ha il duplice scopo di dialogare con alcuni esponenti non gestaltici sulla clinica contemporanea dei gruppi, e di fare un punto sulla clinica gestaltica dei gruppi.
Sono contenuti una serie di dialoghi inediti: Teresa Borino coordinatrice editoriale della rivista, e Giuseppe Craparo, docente universitario, psicodrammatista, intervistano tre rappresentanti di altrettanti modelli: Calogero Lo Piccolo (gruppoanalista), Giovanni Lo Castro (psicodrammatista e lacaniano) e Margherita Spagnuolo Lobb (gestaltista), sulla definizione, la valenza terapeutica e l’uso del corpo nel setting gruppale. Dalle loro risposte emergono differenze epistemologiche e condivisioni cliniche ed etiche, utilissime per chi vuole fare un confronto tra pratiche gruppali diverse.

Margherita Spagnuolo Lobb

Quaderni di Gestalt, volume XXV, 2012/1, La psicoterapia della Gestalt con i gruppi
Rivista semestrale di Psicoterapia della Gestalt edita da FrancoAngeli
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Specializzazioni in Psicoterapia della Gestalt, Siracusa 23 Giugno 2017

Venerdì 23 giugno, presso la sede di Siracusa dell’Istituto di Gestalt HCC Italy, sono stati proclamati psicoterapeuti della Gestalt dalla direttrice, dott.ssa Margherita Spagnuolo Lobb, i colleghi:

  • Dott.ssa MARIACATENA PERRONE – Titolo Tesi Il rischio in PdG come superamento della temerarietà e accoglienza del fallibilismo e dell’umanità” – Relatore: Dott.ssa Giovanna Triberio;
  • Dott.ssa LUANA BERLICH – Titolo Tesi Il vissuto del trauma nei minori stranieri non accompagnati di un CPA”Relatore: Dott.ssa Stefania Pagliazzo;
  • Dott.ssa FRANCA LETIZIA PAPARO – Titolo Tesi Il ri-emergere del sé attraverso la relazione terapeutica in un paziente affetto da Sclerosi Multipla” – Relatore: Dott.ssa Simona Mignosa;
  • Dott. TEODORO CARMANELLO – Titolo Tesi “Neuroscienze e Psicoterapia della Gestalt” – Relatore: Dott.ssa Simona Mignosa;
  • Dott.ssa TIZIANA DI MERCURIO – Titolo Tesi “Fidati di me”. La psicoterapia della Gestalt come sostegno alla crescita del bambino” Relatore: Dott. Giuseppe Sampognaro;
  • Dott.ssa CARLA SALEMI – Titolo Tesi “Le passioni della vita ti salvano la vita”. Mille parole nel silenzio di una danza: la danza movimento terapia nella terza età” – Relatore: Dott. Salvatore Libranti.

Che il vostro futuro possa sempre essere illuminato dall’etica gestaltica, per continuare ad essere nel mondo professionisti capaci di cogliere i bisogni dell’altro, prendendovi cura di voi stessi.

Dallo staff dell’Istituto di Gestalt HCC Italy buona vita a ciascuno di voi!

L’ESPERIENZA CORPOREA IN PSICOTERAPIA

Quando osserviamo ciò che il paziente fa con il corpo, dovremmo mantenere una posizione estetica, “respirare” la sua postura e i suoi movimenti, e lasciare emergere da lì il nostro intervento.
Il contatto terapeutico, ciò che avviene nel “tra”, è fatto da tante sottili sensazioni e aggiustamenti reciproci, che danno al terapeuta (ma anche al paziente) il senso della flessibilità, dell’apertura all’ascolto, della chiarezza di intenti del paziente (e del terapeuta). L’atteggiamento estetico implica il lasciarsi prendere dalla bellezza del “racconto”(verbale e non) del paziente.

Margherita Spagnuolo Lobb

FORMARSI IN PSICOTERAPIA

Oggi è particolarmente importante avere una teoria, una metodologia psicoterapica e un modello di formazione adatti a gestire la fluidità dell’esperienza, per permettere la costruzione di un ground su cui il contattare possa fondarsi.
La psicoterapia si interroga su nuovi modi di curare il disagio psichico, modi che – al di là di codificazioni prestabilite – devono adeguarsi al sentire sociale incerto. Il dialogo terapeutico è così chiamato a viaggiare su codici processuali, più che sul codice verbale, e sulla musica che il terapeuta e il paziente creano, su come riescono a concordare i loro linguaggi, più che sulla comprensione dell’inconscio.
 

Margherita Spagnuolo Lobb

L’Amore del paziente

L’amore del paziente non può essere messo in discussione (…): è la forma che il commitment prende nelle varie situazioni terapeutiche. Il paziente offre al terapeuta il codice di accesso ad una storia intima, con una intenzionalità di contatto che implica il portare a termine gestalt aperte con l’altro, il realizzare integralmente se stesso con l’altro. In questo senso, possiamo parlare anche di “aspetto istituzionale” dell’amore del paziente: è il suo essere paziente, il suo porsi nelle mani del terapeuta che fa sgorgare l’attaccamento amoroso.
Scopo della relazione terapeutica è che terapeuta e paziente trovino un modo di essere al loro confine di contatto, che consenta il commitment e nello stesso tempo l’autonomia di entrambi: l’incontrarsi come un io e un tu.
 

Margherita Spagnuolo Lobb (2011, p. 150)