– a cura di Giuseppe Sampognaro.
Quanto è cresciuto e che direzione ha preso l’evolversi del modello gestaltico nel nostro Paese? Quattro tra i più importanti capi-scuola della Gestalt italiana, sollecitati dalle domande del dottor Dan Bloom, del New York Institute for Gestalt Therapy, e della professoressa Angela Maria Di Vita, dell’Università di Palermo, dialogano e si confrontano sul loro stile di lavoro, sugli aspetti teorici che considerano fondamentali e su quelli che necessitano di sviluppo, su ciò che li accomuna e su ciò che li divide.
Dialogo tra Dan Bloom, Angela Maria di Vita, Margherita Spagnuolo Lobb, Antonio Ferrara, Mariano Pizzimenti, Giuseppe Sampognaro e Riccardo Zerbetto.
(…)Riveste un particolare significato, per me, avere curato questo articolo di apertura, corale e composito, espressione del pensiero di quattro tra i maggiori capi-scuola della Gestalt nel nostro Paese. Si tratta di un dialogo virtuale: stimolati dalle domande del dottor Dan Bloom e della professoressa Angela Maria Di Vita, superando le distanze geografiche e temporali che li separano, i quattro Direttori danno vita a un interessante dibattito su alcuni punti-cardine del nostro approccio. (…) Mi sembra giusto, quindi, chiederci oggi: dove ci troviamo? Verso dove andiamo? Cosa ci unisce, e cosa ci rende unici?
Un caloroso ringraziamento a tutti per avere accettato il rischio di rispondere con sincerità a questi interrogativi.
Dan Bloom
Oggi viviamo in un mondo molto diverso da quello in cui è nata la psicoterapia della Gestalt. Come sappiamo, in questo approccio il sé è concepito come adattamento creativo al campo sociale in evoluzione. Ne consegue che l’evoluzione e la crescita sono per noi “pane quotidiano”, in quanto connaturate con la teoria e la pratica del nostro metodo. La prima cosa che vorrei chiedere a ciascuno di voi è: in quali aspetti della tua pratica della psicoterapia della Gestalt hai notato personalmente e direttamente l’evoluzione o la crescita del nostro approccio?
Margherita Spagnuolo Lobb
(…) In effetti, quando ho conosciuto la psicoterapia della Gestalt negli anni ’70, era diffusa fondamentalmente come un approccio individuale in gruppo. Allora, nel fervore delle psicoterapie umanistiche, che miravano ad affermare la dignità di ogni esperienza umana al di là di modelli diagnostici, questo metodo focalizzava la terapeuticità del condividere in gruppo un’esigenza diffusa: quella di emergere, ciascuno con la propria creatività individuale, dall’imposizione normativa di varie forme di autorità, più o meno istituzionalizzate, tenendo fede al principio dell’autoregolazione dell’organismo.
Oggi l’aspetto che mi sembra più evidentemente cambiato ha a che fare con l’uso delle emozioni e del “potere” del terapeuta nel settino (cfr. Cavaleri, 2009). Opponendosi alla dicotomia tra autorità e dipendenza, che secondo la cultura del tempo ostacolava l’emergere dell’individualità creativa, i fondatori cercarono di costruire una teoria del sé che rispecchiasse la spontaneità delle relazioni umane, che cogliesse quel quid che caratterizza la vitalità dell’esperienza umana (Spagnuolo Lobb, 2001). Ciò che cura non è la comprensione razionale e quindi il controllo del disturbo, bensì qualcosa che ha a che fare con aspetti processuali ed estetici del qui-e-ora della relazione terapeutica.
L’uso delle emozioni nella pratica clinica gestaltica rientrava in questo sforzo di riconquistare la spontaneità nel qui-e-ora dell’incontro terapeutico. Ma la fiducia che ogni emozione vissuta nel setting terapeutico sia di per sé terapeutica, con l’andare del tempo, man mano che la società andava sviluppando necessità diverse da quelle sopra citate, diventò ingenua: qualsiasi condivisione dei vissuti da parte del terapeuta veniva implicitamente vista come positiva e non considerava il fatto che l’emozione provata dal terapeuta consapevole è una risposta sensibile e specifica al campo situazionale.
Oggi la percezione (e quindi anche l’emozione) del paziente o del terapeuta, sia che ci si trovi in un setting individuale o di gruppo o familiare o di coppia, viene vista come un processo che accade non “dentro” l’indi- viduo, ma nello spazio co-creato del “tra”, in cui le intenzionalità di contatto di entrambi si attualizzano. Oggi sappiamo come l’emozione del terapeuta, così come quella del paziente, è un’energia che emerge nella situazione terapeutica, ed è dunque legata alla situazione attuale, in quanto possiede un’intenzionalità di contatto verso l’altro. Per esempio, nel caso in cui il terapeuta provi attrazione fisica (o noia, o fastidio) verso un paziente, il chiedersi: “Come questa mia emozione determina il contatto con questo paziente?”, “Come il paziente contribuisce al mantenimento di questo mio sentimento?”, garantisce da una eventuale condivisione meno ingenua dell’emozione (Spagnuolo Lobb, 2003; 2009).
(…)
Tratto da Quaderni di Gestalt, volume XXIII, 2009-1, L’evoluzione della psicoterapia della Gestalt in Italia
Rivista semestrale di psicoterapia della Gestalt edita da Franco Angeli
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